Il dramma degli immigrati a Malta i racconti della disperazione, La Repubblica, 20/06/2009

La testimonianza di una operatrice umanitaria di Medici senza frontiere
che ha raccolto le storie di persone scappate dai loro paesi per via della guerra

Il dramma degli immigrati a Malta i racconti della disperazione

di ELISA FINOCCHIARO*

PASSEGGIANDO per la zona di Hal far, si incontrano soltanto immigrati. Tanti container, tanta polvere, una distesa di tende. C’è il centro di detenzione. Molti immigrati appena usciti dalla detenzione hanno trovato alloggio nel centro aperto a qualche centinaio di metri, attraversando la strada. Il rumore degli aerei che decollano di continuo dal vicino aeroporto è assordante.

Non ci sono servizi ad Hal far, eccetto la clinica di Medici Senza Frontiere. Per arrivare con l’autobus puntuali ad un eventuale appuntamento a Valletta, gli abitanti dei quattro “centri aperti” di Hal far (luoghi dove risiedono gli immigrati una volta usciti dai centri chiusi dove vengono trasferiti tutti coloro che sbarcano a Malta illegalmente), devono partire un paio di ore prima.

Lavorando in questa area isolata siamo gli interlocutori privilegiati di tantissime storie che altrimenti in questo spazio vuoto rimarrebbero inascoltate. Nei centri aperti, e nella nostra clinica di Hal far, abbiamo avuto modo di sentire i racconti di persone scappate dal loro paese per via della guerra, che pur di trovare rifugio sono passate attraverso i pericoli del deserto e del mar Mediterraneo, della polizia libica e della detenzione.

Speravano che, dopo tutto questo, avrebbero trovato l’Europa. Invece i loro sogni si sono sgonfiati di fronte a questa realtà senza prospettive. Ho potuto ascoltare dalle loro labbra frasi come: “Dio, fammi uccello per poter volare in Somalia a riprendere i miei figli”, “Quando lasci il tuo paese lasci il mondo”, “Qui ho cominciato a fumare”, “Penso ai miei genitori litigare, a mia madre che chiede a mio padre per quale motivo abbia permesso che andassi a morire in un altro paese invece che morire in Somalia”. O ancora: “In Somalia è più facile prendere un AK-47 nelle tue mani piuttosto che una penna e un libro, sono scappato per scegliere la penna e il libro. Ho trascorso nella detenzione di Malta nove mesi durante i quali non ho mai potuto vedere le stelle e la luna. A volte penso di non vivere in un mondo reale”.

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La maggioranza degli immigrati che assistiamo proviene dalla Somalia e fugge dal caos della guerra. Alcuni ancora conservano schegge di mina in corpo. Altri mostrano segni di proiettili. Parlano di colleghi uccisi, di un paradiso perduto che non avrebbero mai abbandonato se non fossero stati costretti. Raccontano di ripetute minacce di morte, di amici, familiari, colleghi assassinati. Dicono di amare il loro paese, dicono che sarebbero rimasti per farne un luogo migliore, ma non hanno potuto. Qui hanno pace ma non hanno più una vita, secondo le loro parole.

Riporto la testimonianza di A., un ragazzo somalo di 18 anni. “Stavo parlando con un mio amico quando vedemmo seminare di mine un terreno vicino casa nostra. Raccontammo tutto alla polizia, che quindi venne per esaminare l’area. Il giorno successivo il mio amico venne ucciso. Avevamo gia ricevuto delle minacce, perché volevano che facessimo parte della milizia. Non sarei sopravvissuto in Somalia. Sarei morto sia se mi fossi arruolato, sia se mi fossi rifiutato di farlo. Quando attraversai il deserto, due persone che viaggiavano con me morirono di sete. Mi presero e mi portarono in prigione mentre cercavo di attraversare il confine con la Libia, presero tutto quel che avevo e cominciarono a trattarmi con un animale. Mangiavo una volta al giorno, di notte mi picchiavano come se fossi un pallone da calcio. Mettevano la mia testa in un secchio d’acqua e mi appendevano per le gambe. Volevo uccidermi. Ero nudo, scalzo, sporco. La prima volta che pagai le guardie per rilasciarmi, presero i soldi e mi lasciarono dentro. La seconda volta la mia famiglia riuscì a mandarmi duemila dollari e finalmente mi rilasciarono. Sono stato fortunato, sono rimasto in prigione solo un anno. Ma alcuni, lì dentro, sono diventati pazzi, gridavano tutto il giorno. Uno di loro si uccise bevendo ammoniaca. Ogni tanto qualcuno moriva, perché la prigione libica prima o poi ti uccide. Non pensavo sarei stato di nuovo imprigionato in Europa”.

*operatrice di Medici senza frontiere