Lo scandalo dei centri di identificazione dove gli ospiti diventano detenuti

fonte: laRepubblica.it

 

Sono 12 le prigioni amministrative italiane e c’è in programma di aprirne altre 4. Piene di persone che non hanno commesso reati ma dovranno restarci anche 18 mesi.  Da Trapani a Gradisca d’Isonzo è un sistema infernale con appalti milionari e violazioni dei diritti umani. Una task force governativa per verificare le condizioni

Il ministero dell’Interno ha annunciato, in questi giorni, una task force per verificare le condizioni di detenzione. Il Partito democratico manda una delegazione di parlamentari a ispezionare le strutture dall’11 al 25 giugno. “Un nuovo tipo di istituzione totale” li ha chiamati l’Ong Medici per i diritti umani. “Cattivi cestini” che producono mele marce, istituzioni che rendono cattivi e razzisti in cui si diventa ‘non persone’, scrive Clelia Bartoli, docente di Diritti Umani all’Università di Palermo nel libro “Razzisti per legge. L’Italia che discrimina”. Sono i Cie, i Centri di detenzione amministrativa per stranieri senza permesso di soggiorno e stanno alla base delle politiche europee ed italiane sull’immigrazione. In Italia stanno spuntando come funghi. Da Trapani a Gradisca d’Isonzo, ce ne sono 12 aperti e altri 4 in programma a breve e medio termine. Trapani è l’unica città ad averne due sul suo territorio, ma il governo pianifica di aprirne un terzo. La location scelta è la pista abbandonata dell’ex aeroporto militare Chinisia. E se nella città siciliana le istituzioni locali non si sono pronunciate, a Bari invece il comune e la Regione Puglia hanno appoggiato l’azione legale degli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci che hanno chiamato il ministero dell’Interno sul banco degli imputati per avere istituito “un carcere non dichiarato, extra ordinem”. Il tribunale del capoluogo pugliese ha accettato la loro azione popolare, con cui chiedono la chiusura del Cie. L’udienza per le violazioni dei diritti umani si terrà l’11 luglio.

LA MAPPA DEI CIE

“Cie” è un acronimo per addetti ai lavori. Non si possono chiamare “carceri”, sono “centri di identificazione e di espulsione”. Dentro non ci sono “reclusi”, ma “ospiti” in attesa di un documento, un passaporto, un lasciapassare che non arriva mai. I migranti che fuggono non “evadono” perché non stanno commettendo un reato, “si allontanano arbitrariamente”. Le rivolte per guadagnarsi la libertà diventano “danneggiamenti”. È il linguaggio della burocrazia. Serve a dare un’apparenza di normalità tecnica a un sistema violento, repressivo e kafkiano, iniziato con l’istituzione dei Cpt (Centri di permanenza temporanea) della legge Turco-Napolitano e degenerato nei Cie, centri di identificazione e di espulsione, voluti da Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno. I giorni di detenzione previsti all’inizio erano 60, poi sono triplicati per due volte, passando a sei mesi nel 2009, a 18 mesi nell’agosto 2011. È il tempo massimo previsto dalla direttiva europea sui rimpatri per casi eccezionali, ma in Italia è stato recepito come la regola.

Un anno e mezzo dietro triple file di sbarre alte da cinque a sette metri, telecamere che registrano ogni movimento e la sorveglianza di carabinieri, poliziotti, finanzieri e militari. Poco importa se le gabbie sono dipinte di giallo, se i muri delle stanze sono colorati di blu o di rosso. Chi sta dentro ha un unico pensiero per 24 ore al giorno: come riuscire a scappare. Sente di subire un trattamento ingiusto perché non ha commesso reati per finire in gabbia. Dentro le celle, a differenza del carcere, non si può tenere niente: una sedia, una matita, una penna. Perfino i tappi delle bottiglie sono vietati. Ogni piccolo oggetto può essere usato per autolesionismo. Ci si taglia, ci si cuce la bocca, si ingoiano pile e altri corpi estranei. Così, sperano i rinchiusi dei Cie, andranno in ospedale e da lì sarà più facile scappare. 

Ozio forzato perché non c’è nulla da fare, disagio e frustrazione perché nessuno sa quanto tempo esattamente dovrà stare rinchiuso in attesa di un rimpatrio che forse arriverà domani, o forse non arriverà mai. Molti escono per scadenza dei termini con un foglio di via, collezionano decine di espulsioni e poi rientrano nel Cie al successivo controllo dei documenti. “L’unico modo per sfogare la rabbia è spaccare qualcosa che c’è intorno. Si genera così violenza contro gli arredi o contro se stessi” dice Alberto Barbieri, coordinatore dei Medu (Medici per i diritti umani). Nel Cie di Torino Barbieri ha scoperto “una cosa grottesca”: l’agility dog. Una volta a settimana, “i reclusi vengono fatti assistere agli spettacoli di cani che saltano nei cerchi e fanno percorsi a ostacoli”. A Torino nel 2011 ci sono stati 156 atti di autolesionismo, 100 per ingestione di corpi estranei e 56 per ferite di arma da taglio. Un terzo dei reclusi assume psicofarmaci. Senza prescrizione di uno psichiatra. Anche a Roma, nel centro di Ponte Galeria, il 50 per cento dei trattenuti è sotto ansiolitici. 

Nel rapporto “Le sbarre più alte”, Medu riferisce che nel Cie capitolino sono stati internati 820 romeni negli ultimi due anni. Prima nazionalità per presenze nel 2010 e terza nel 2011. Un abuso evidente, visto che i romeni non hanno bisogno del permesso di soggiorno perché sono cittadini europei.

I governi sono convinti di non poter fare a meno dei centri di identificazione e di espulsione. Ma in tempi di spending review, sembrano un inutile spreco sulla pelle di alcune migliaia di indesiderati sociali. Le cifre parlano chiaro: si stima che gli immigrati irregolari in Italia siano circa 500 mila. Ma in totale nel 2010 sono entrate nei Cie circa 7 mila persone, di cui solo il 48 per cento è stato rimpatriato. Il sottosegretario all’Interno Saverio Ruperto, lo scorso 10 maggio, ha detto alla Camera che la percentuale è salita al 50 per cento nel 2011, ma ha fornito un dato incompleto perché non si sa il numero di trattenuti nei Cie dopo il 2010, né quanti rimpatri sono stati fatti e verso quali Paesi. Sempre secondo il sottosegretario, gli interventi di ampliamento e costruzione di nuovi Cie porteranno a 700 nuovi posti, il totale sale così a circa 2000.  Da quando i tempi di detenzione si sono allungati, servono altre strutture. Nessuno considera il fatto che l’inasprimento della pena ha sortito effetti contrari a quello che si voleva ottenere. Il numero degli ingressi e dei rimpatri continua a diminuire. Questo vuol dire che il sistema si avvita su se stesso, internando sempre e solo alcune categorie di persone. Basta guardare l’esempio di Ponte Galeria, dove i reclusi sono stati 3.206 nel 2009, 2.172 nel 2010 e 2.049 nel 2011. La percentuale dei rimpatriati, sul totale delle presenze nel centro capitolino, è passata dal 48% del 2009 al 47% del 2010, al 39% nel 2011. In compenso, le rivolte, le fughe di massa e le repressioni violente come quelle che si vedono nel video esclusivo, sono all’ordine del giorno in tutti i centri italiani.