Rosarno, la beffa dei braccianti. espresso.repubblica.it

Dopo la rivolta e gli scontri del gennaio scorso in Calabria, le istituzioni avevano promesso un lavoro legale agli extracomunitari ridotti in schiavitù. Ma solo 4 hanno un’occupazione regolare: gli altri sono tornati nelle condizioni di prima

«Gli extracomunitari provenienti da Rosarno passeranno dalla condizione di braccianti illegali e sfruttati a quella di lavoratori legali e stagionali nelle campagne della provincia di Roma». Era il 28 aprile 2010 quando questa dichiarazione è comparsa sul sito della Provincia di Roma, in riferimento a 38 degli oltre cento immigrati su cui si erano accesi i riflettori dei media dopo gli scontri di pochi giorni prima, dovuti alle condizioni di schiavitù in cui gli africani erano stati ridotti nella piana di Gioia Tauro.

L’annuncio era di quelli da applausi, e seguiva la firma di un accordo con le principali associazioni di categoria del settore agricolo per trovare un’occupazione ai “reduci” di Rosarno: centoventi braccianti trasferiti nella capitale dopo le proteste di gennaio 2010 nella località calabrese e gli scontri con alcuni cittadini rosarnesi. Un segnale di legalità «per rispondere al razzismo emerso nei mesi scorsi verso gente che vuole solo lavorare» per dirla con l’assessore provinciale all’Agricoltura Aurelio Lo Fazio, il politico che più di tutti aveva messo la faccia su questa iniziativa.

 

Oggi, a cinque mesi da quell’accordo, Keita, Suleyman, Abou e Lamine possono considerarsi quattro miracolati. Perché sono gli unici ad aver trovato un lavoro vero, con tanto di contratto e paga regolari. Gli altri 116 aspettano. Tra di loro, molti sono tornati a farsi sfruttare dai soliti caporali nei campi del casertano, del foggiano e dell’agro pontino.

Peccato, perché l’accordo di fine aprile qualche illusione l’aveva creata. I nomi dei firmatari del protocollo d’intesa, infatti, erano di tutto rispetto: Provincia di Roma, Confagricoltura, Coldiretti, Cia, Confcooperative e Legacoop Agroalimentare. Sono le associazioni che rappresentano la maggior parte delle aziende agricole di un territorio dove la manodopera, in teoria, dovrebbe servire come il pane. 

Tra gli aderenti a Progetto Diritti, la onlus che segue i lavoratori africani da gennaio 2010, qualcuno una spiegazione ce l’ha: «Le aziende agricole continuano a far lavorare i braccianti, perché hanno bisogno di manodopera. Semplicemente, li fanno lavorare in nero», sostiene Veronica Padoan. Lei, insieme ad altri colleghi, avrebbe dovuto fornire alle aziende i curricula dei 120 ragazzi, accompagnarli ai colloqui e aiutarli con i documenti: permessi e certificati medici. A fine giugno la onlus, che fa parte del Comitato Antirazzista del Pigneto, ha portato in piazza alcuni ex lavoratori di Rosarno: le assunzioni erano ferme a zero e la manifestazione davanti alla sede di Confragricoltura doveva servire a muovere le acque. «Dopo quella protesta c’è stato un nuovo incontro», continua Padoan, «a cui hanno partecipato solo Confgricoltura e Coldiretti. Le altre associazioni? Volatilizzate».

Al di là della retorica da conferenza stampa, il protocollo d’intesa è soprattutto un concentrato di buone intenzioni. La Provincia si è assunta «l’impegno di sostenere l’iniziativa» mentre le associazioni di categoria si sono proposte di «sensibilizzare i propri associati» perché assumano personale proveniente da Rosarno. Un accordo più politico che pratico. Dietro il quale oggi la Provincia si difende: «Non abbiamo mai promesso posti di lavoro, ci siamo posti come intermediari tra domanda e offerta». Aurelio Lo Fazio, assessore all’Agricoltura, parla di “moral suasion”: «Non possiamo costringere un’azienda ad assumere un lavoratore piuttosto che un altro. Sarebbe come entrare a gamba tesa nel libero mercato. Al massimo, possiamo cercare di sensibilizzare. Questo accordo ha bisogno di tempo per dare risultati». Nel frattempo la stagione della raccolta è finita. Prossimo appuntamento: novembre, quando servirà qualcuno per cogliere le olive.

Da Palazzo Valentini – sede della Provincia di Roma – sono spuntate cifre che, a conti fatti, non tornano. Secondo l’amministrazione, infatti, i posti di lavoro ricavati dall’accordo di fine aprile sarebbero 11 e non 4. Di questi, sette sarebbero stati assunti dalla Cls Logistica, un’azienda di servizi legata a Confcooperative. Il titolare Mario Terra conferma tutto: «Abbiamo chiamato 14 persone selezionando i curriculum forniti da Confcooperative. I sette che ci hanno risposto hanno sostenuto il colloquio e verranno assunti a tempo indeterminato. Quattro immediatamente, gli altri poche settimane più tardi». Ma cosa manca perché le assunzioni partano? Formalità: certificati medici e penali.

 Progetto Diritti conferma solo in parte: «Proprio in questi giorni sono stati chiamati due lavoratori, Abou e Lamine, per cominciare il periodo di prova che dovrebbe portarli all’assunzione», dice Dario Simonetti. «Gli altri cinque per ora sono stati liquidati con un ‘le faremo sapere’ e nessuno li ha più chiamati. Del resto, se davvero servissero altri cinque certificati medici saremmo i primi a saperlo, visto che siamo noi ad accompagnare i lavoratori alle Asl».

«Non aspettiamoci risultati eclatanti dal protocollo d’intesa, perché non possiamo assumere irregolari», spiega Antonio Vicino, vicedirettore di Confagricoltura Roma. Tutti i 120 ex “rosarnesi” hanno chiesto asilo, ma solo 14 hanno in tasca un regolare permesso di soggiorno. Gli altri godono di una “protezione sussidiaria” o di un “permesso per motivi umanitari”. Per queste persone l’accordo di fine aprile prevedeva un periodo di formazione retribuita. Un escamotage per dare una mano a tutti. «L’idea ci è venuta dopo la firma del protocollo d’intesa», spiega Veronica Padoan di Progetto Diritti, e aveva riscosso l’entusiasmo generale. «Anche questi ragazzi potrebbero essere inseriti nelle aziende. Oggi, però, le associazioni di categoria fingono di non ricordare».

Al di fuori del piano della Provincia, due braccianti hanno ottenuto un corso di formazione retribuita. Avevano chiesto asilo, gli è stato negato ma hanno presentato ricorso. Secondo la legge, tanto basta perché possano lavorare nel nostro paese in attesa di un responso.

di Federico Formica