Quando il silenzio sa di razzismo

di Susanna Marietti

 

Finalmente qualcosa si muove. Una grande mobilitazione antirazzista è stata evocata venerdì dalle associazioni promotrici dell’incontro dal titolo “Clandestini per forza”, che si è tenuto presso l’Ufficio italiano del Parlamento europeo a Roma.
Antigone, Arci, Asgi, Link, Ora d’Aria, Progetto Diritti, insieme alle comunità immigrate bengalese, kurda, rumena, senegalese e srilankese si sono confrontati con gli europarlamentari Vittorio Agnoletto (che per primo aveva lanciato l’idea di una manifestazione contro le misure legislative annunciate dal governo), Giusto Catania e Pasqualina Napoletano. Al centro della discussione, le misure del pacchetto sicurezza governativo e la direttiva europea di prossima approvazione con la quale si fissa in diciotto mesi – un’enormità, nove volte in più di quello stabilito da Bossi e da Fini nella legge italica che porta il loro nome – il limite di tempo entro cui un immigrato irregolare può essere detenuto in un Cpt.

Quando i processi storici ci circondano è ben più difficile comprenderne il senso e la portata. Quando siamo immersi in un cambiamento di teorizzazione politica, di prassi governativa, di sentire sociale si fa fatica a individuare dai suoi confini interni la figura che esso sta disegnando. Ecco: questo è il pensiero migliore che si riesce inventare per tentar di scusare tutti coloro dei quali negli ultimi mesi, e ancor più negli ultimi giorni, si è sentito un pervasivo, tonto e colpevole silenzio. Un silenzio che ha invaso le persone che fino a ieri sentivamo vicine, i nostri amici, gente come noi.
Cosa altro dobbiamo aspettare che succeda per indignarci come ci indigniamo guardando oggi al non troppo lontano 1938, quando l’Italia promulgò delle leggi basate sulla discriminazione razziale? Il messaggio culturale di oggi non è lo stesso di allora? Abbiamo assistito a sindaci di centrosinistra che volevano cacciare i pericolosi lavavetri dalle loro strade; abbiamo assistito al leader del centrosinistra che pretendeva gli venisse concesso il potere di espellere senza garanzie giurisdizionali più o meno chiunque appartenesse a una categoria geopolitica di stupratori, i rumeni; abbiamo assistito a un sindaco di centrosinistra che infuocava gli animi dei suoi cittadini contro i rom quale etnia tout court. Poi – e qui la storia si riappropria del suo corso – abbiamo assistito a una vittoria in massa delle destre, a un sindaco fascista che vieta a un ponte della sua città di far da tetto a chi un tetto non lo ha e che si ingegna per trovare un reato da ascrivere a chi lì sotto si riparava, a folle incendiate da politica e camorra che danno fuoco a un campo rom, ad avvocati che inventano fantasiosamente pacchetti sicurezza anti-stranieri.
Due processi vanno in tutto ciò individuati e tenuti distinti. Processi che nel primo tratto marciano paralleli, e che vanno divaricandosi a mano a mano che il tempo passa, fino a disegnare inevitabili torsioni. Il primo è il processo real-politico. Il governo dell’esistente, a partire dagli obiettivi assunti, e le possibilità concrete di incidere sul corso delle cose. Questo primo processo, tanto fortunatamente quanto tristemente, è ben meno potente di quanto si vuol far credere. Si minaccia di introdurre il reato di clandestinità, e dopo pochi giorni si smorza il tono con una frase del tutto priva di senso giuridico (il reato sarà introdotto solo per chi delinque) perché ben consci della sua improponibilità; si minacciano rimpatri di massa, ma ben si conoscono gli insostenibili costi economici e sociali (chi farà a meno dei lavoratori in nero e della schiera di badanti?) dell’operazione; si minaccia di eliminare la legge Gozzini, ma ben si sa che non sarà possibile rinunciare a uno strumento di pacificazione delle carceri.
Il secondo processo è dunque il vero protagonista dei nostri tempi. Lui sì che marcia diritto senza curve o retromarce. E’ il processo culturale, quello per cui oggi in Italia è possibile essere razzisti senza che nessuno si indigni, è possibile dire in televisione che gli immigrati nel nostro quartiere, per carità, si sono sempre comportati bene, ma comunque ci procurano un senso di fastidio e dunque non li vogliamo. E, di più, si può dire tutto questo e votare Partito democratico.
Nell’incontro di venerdì sono intervenuti Patrizio Gonnella (Antigone), Angelo Caputo (Magistratura Democratica), Mauro Palma (Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura), Monica Rebegea (comunità rumena), Siddique Alam Batchu (Associazione Dhuumcatu, comunità bengalese), Fabio Baglioni (Asgi), Mariano Bottaccio (Cnca), Sergio Giovagnoli (Arci), Luigi Nieri (Link), Arturo Salerni (Progetto Diritti), Pietro Soldini (Cgil). Un coro, finalmente, di indignazione. Che ognuno di noi si faccia moltiplicatore di questa indignazione: non è più il momento di restare in silenzio.