L’esempio indiano e le enclosures del XXI secolo: globalizzazione neoliberista, sfruttamento e migrazioni

Di Vittorio Caligiuri

Le enclosures furono quel vasto movimento verificatosi in Inghilterra tra XVIII e XIX secolo che, consistenti nell’appropriazione privata di terre e nel loro utilizzo capitalistico, determinarono, insieme allo sfruttamento coloniale, le condizioni necessarie per la nascita del capitalismo industriale, fornendo anche quella manodopera a basso costo che nelle fabbriche avrebbe lavorato. Una popolazione che cacciata dalle campagne era costretta allo sfruttamento dalla legge dei prezzi e per la quale “la morte per fame” doveva “essere una prospettiva reale”[1].

Negli ultimi decenni un movimento analogo sta interessando larga parte del Terzo Mondo, tra cui un enorme movimento migratorio dalle campagne alle città. La migrazione non è solo quella che lambisce i paesi del Nord del Mondo, la maggior parte dei migranti si muovono all’interno dei paesi cui è stato imposto un modello di sottosviluppo. La crescita della popolazione urbana, le terribili condizioni di vita cui è soggetta e l’assenza di sicurezza permettono lo sfruttamento di questa forza lavoro a prezzi sempre più bassi, con effetti determinanti per l’insieme dell’economia capitalistica mondiale. 

L’esempio indiano 

Da più di un anno l’India vive in uno stato di mobilitazione popolare di proporzioni raramente sperimentate nella storia mondiale. La ragione è da rintracciare nell’esteso progetto di riforma del settore agricolo che, favorendo gli interessi dei grandi proprietari, delle multinazionali del settore, nonché degli intermediari, avrebbe come risultato l’asservimento dei piccoli produttori. Con profondi effetti dal punto di vista dell’autonomia dei produttori, della disponibilità alimentare nel paese e della struttura della sua produzione agricola, nonché, dal punto di vista dell’indebitamento dei contadini e conseguentemente della struttura della proprietà fondiaria. A sua volta, l’ingresso nella spirale del debito determinerebbe l’espulsione di milioni di contadini dalle proprie terre, i quali non avrebbero altra scelta che non aggiungersi al miliardo di persone[2]che già ora popolano gli slums[3], in India e nel resto del Terzo Mondo[4]. Al contempo il modello di agricoltura basato sulla monocoltura e finalizzato alle esportazioni o alla vendita su vasti mercati gestiti da grossisti che è previsto e favorito dalle riforme metterebbe a rischio la sicurezza alimentare di larga parte della popolazione, peggiorando le condizioni di vita di più di quel 60% della popolazione indiana che sarebbe direttamente colpito dalle nuove leggi[5]

Come attestato anche dal premio Nobel per l’economia Amartya Sen, le carestie non sono causate dall’assenza di cibo, ma dall’impossibilità, determinata dai prezzi dei prodotti e fatto che questi siano prodotti non per il consumo locale ma per l’esportazione[6].  Le proteste, tra cui la più grande probabilmente mai realizzatasi, con oltre 250 milioni di scioperanti e manifestazioni nella capitale e nelle maggiori città del paese, invase dalle popolazioni delle campagne, hanno ottenuto la sospensione delle leggi per 18 mesi. 

L’esempio indiano è importante sotto due differenti punti di vista. Il primo, oggettivo, è costituito dall’almeno transitoria vittoria conseguita dalle forze popolari attraverso l’organizzazione di vastissime mobilitazioni, che hanno visto il coinvolgimento delle popolazioni delle campagne ma anche di quelle delle città – dato ancora più importante in quanto si tratta di una vittoria conquistata in un periodo storico contrassegnato dall’egemonia delle forze che fanno capo ai grandi capitali ed in un contesto politicamente ostile, oltre che nel mezzo della pandemia da COVID-19, dimostrando proprio l’importanza di mobilitazione ed organizzazione. Il secondo sta nel fatto che forse per la prima volta da anni, in conseguenza delle enormi proporzioni della protesta, sebbene solo per un brevissimo periodo, a febbraio 2021 i media “occidentali” siano stati costretti a prestare attenzione ad un movimento di opposizione che, in un paese della periferia, rifiutava riforme imposte dagli interessi economici del centro e sostenute dai grandi capitali e dai grandi proprietari terrieri locali – ed, anche se solo collateralmente ed implicitamente, menzionando il vasto fenomeno di ridefinizione della proprietà fondiaria e della produzione agricola che sta interessando i paesi del Terzo Mondo nel corso degli ultimi cinque decenni, acceleratosi in conseguenza delle riforme neoliberiste imposte dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali (IFIs) ed ancora di più a seguito dell’istituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 1994[7][8][9]

Le tre leggi indiane e la riforma dell’agricoltura nel Terzo Mondo: l’alleanza tra corporations e capitali del “nord” e borghesie dei paesi del “sud” 

Le leggi di cui consta la riforma dell’agricoltura promossa dal governo di Modi, che non diversamente da quanto riscontrabile anche nei paesi occidentali unisce retorica nazionalista ed identitaria con politiche liberiste di stampo antipopolare, hanno come principale obiettivo quello di favorire gli investimenti privati da parte di grandi corporation dell’agribusiness. Secondo la vulgata liberale questi investimenti sarebbero funzionali all’inserimento di una quota crescente della produzione agricola all’interno delle catene del valore globale, favorendo l’impiego di tecnologie agricole ad alto costo con vantaggi economici per i piccoli produttori ed un maggiore produttività.

 In realtà, come dimostrato – tra gli altri, numerosi casi – dai risultati dell’applicazione di tecniche capital intensivein India a partire dalla seconda metà del XX secolo è peggiorata la qualità oltre che la quantità del cibo disponibile in termini pro-capite[10]. L’impiego di tali tecniche non è infatti neutrale dal punto di vista delle modalità di produzione e della distribuzione dei suoi frutti; l’investimento in tecnologie ad alta intensità di capitale vincola i produttori alla coltivazione di prodotti che, stante il loro mercato di sbocco, garantiscano il ritorno dei capitali investiti – il che rende difficile immaginare che la produzione sia diretta alle necessità delle popolazioni locali, come si vedrà sempre più impoverite anche in ragione dell’emigrazione determinata da questo tipo di riforme, che come primo effetto hanno una riduzione dei lavoratori impiegati.

Le leggi approvate dal parlamento indiano pur facendo riferimento a tale schema, se ne discostano su un punto centrale – il quale è in larga parte il risultato dei mutati schemi di produzione, che a loro volta implicano differenti rapporti sociali, nel corso del tempo. Tale cambiamento sta nel fatto che le grandi corporation non si occupano più dello sfruttamento diretto dei terreni, ma piuttosto si relazionano con una serie di intermediari e grossisti locali i quali a loro volta acquistano i prodotti dai contadini. Allo stesso modo, non solamente i contratti di fornitura tendono ad essere stagionali e determinati dalle condizioni dei mercati internazionali e dalle fluttuazioni dei valori delle merci, il che ha gravi impatti sulla sicurezza dei piccoli produttori – sia dal punto di vista del reddito che, in un contesto caratterizzato da largo uso di monocultura, dal punto di vista alimentare – ma tendono a vincolare mediante contratto gli agricoltori all’utilizzo, e dunque all’acquisto, di determinate tecnologie, di proprietà delle stesse corporation. 

Da ciò risulta il controllo indiretto che grossisti, rappresentati dalla borghesia nazionale, e corporation esercitano sul piccolo produttore, oltre alla facilità con cui, al fluttuare dei prezzi sui mercati internazionali, questo si possa trovare in una situazione in cui la contrazione di debiti[11]conduca alla perdita del proprio terreno e dunque all’accentramento della proprietà fondiaria nelle mani di quella stessa borghesia “locale” che già fungeva da grossista/intermediario tra piccoli produttori e grandi corporations. Le leggi in questione infatti non solamente prevedono la rimozione del Minimum Support Price – la garanzia di acquisto da parte dello stato di alcuni prodotti direttamente dai contadini, il quale così segna un prezzo minimo oltre il quale al produttore conviene vendere allo stato e non al privato, tutelandolo – aumentando così i margini di ricatto esercitabili dai grossisti e dalle corporations, che così sarebbero libere non solamente di abbassare i prezzi, ma costituirebbero anche l’unico acquirente possibile per la produzione. Tale dinamica, il cui effetto è l’espulsione dei contadini dalle campagne, presenta numerose analogie con quella attuata durante il periodo della colonizzazione diretta – allo stesso modo, l’uso della forza statale per cacciare le popolazioni delle proprie terre è pratica tutt’ora diffusa.  

Come sintetizzato da un articolo apparso su Lancet, la riforma non è centrata sugli agricoltori, ma finalizzata alla facilità di fare business in un ambiente privo di regolamentazione per gli speculatori che agiscono all’interno delle supply chains[12][13]– nello stesso articolo vengono inoltre menzionati i rischi dal punto di vista ambientale e dello sfruttamento insiti in tale riforma. Il modello di agricoltura industrializzata sostenuto dalle grandi corporations, inoltre, ha nella grande proprietà fondiaria il corrispettivo delle tecnologie utilizzate, le quali richiedono investimenti ingenti e prolungati nel tempo. L’accentramento della proprietà e l’espulsione dei piccoli contadini dalle campagne sono quindi elemento centrale del modello agricolo su cui si regge buona parte dell’industria legata all’agricoltura mondiale e non un effetto secondario o collaterale di questa[14]. E proprio a tale modello sono ispirate le leggi agricole varate durante l’anno scorso dal governo di Narendra Modi.

Non stupisce dunque l’opposizione che queste riforme hanno incontrato da parte delle organizzazioni dei lavoratori dell’India. Allo stesso modo, risulta chiaro l’asse che lega gli interessi delle classi proprietarie e capitaliste indiane (in questo caso), le quali fungono la funzione di intermediari, con quelli delle corporations e della finanza occidentale, un asse che proprio in tale governo trova tale espressione. Le attuali riforme costituiscono la manifestazione maggiormente visibile di una dinamica in atto da decenni, in India e nel resto del mondo. Per fare un semplice esempio, il settore agricolo nel corso degli anni 2000 è stato sempre più interessato dall’influenza della speculazione finanziaria, che ha conosciuto un vero e proprio boom con la crisi del 2008, come riconosciuto anche in alcuni paper dell’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo), ed a seguito della quale le attività speculative hanno determinato una vera e propria crisi alimentare generalizzata nei paesi del Terzo Mondo, già interessati da profonda deregolamentazione[15], sostenuta da quanto stabilito nei Round del WTO e dai programmi di aggiustamento strutturale di World Bank e Fondo Monetario Internazionale[16].  Politiche che sono state la principale ragione per un aumento accentuato e continuo dei prezzi delle materie prime alimentari ancora prima della crisi, nel corso degli anni 2000, con drammatici effetti dal punto di vista della sicurezza alimentare di centinaia di milioni di persone[17].

Espulsione dalle campagne, legge del valore globale e apartheid su scala mondiale

Gli effetti del fenomeno che, a partire dall’India, qui si sta cercando di analizzare sono molteplici e non si limitano al settore della produzione agricola mondiale ed alle industrie a questa collegata, o a quella che con ogni probabilità è la dinamica migratoria di proporzioni più vaste mai vissuta dall’umanità. Questa influenza direttamente la struttura dell’economia globale, i rapporti sociali, le modalità sfruttamento e le modalità di remunerazione dei capitali in tutto il mondo. 

Il fenomeno di diffusa, e spesso violenta, acquisizione, delle terre da parte di grandissimi proprietari capitalisti a livello mondiale, spesso definito come land grabbing, costituisce uno dei fenomeni maggiormente decisivi ed al contempo rivelativi di quelli che sono i rapporti sociali a livello mondiale. Tuttavia i suoi effetti sono ben lungi dal limitarsi – se così si può dire, considerata la quota di popolazione mondiale che dall’agricoltura direttamente dipente – al settore agricolo. Quote crescenti della popolazione mondiale, una volta espulse dalle campagne non hanno infatti altra possibilità che cercare un’occupazione nelle città – anche in considerazione del fatto che le frontiere dei paesi più ricchi sono, per le popolazioni povere dei paesi con economia dipendente, chiuse. Per semplificare, il movimento è paragonabile a quello vissuto dalla popolazione italiana nel secondo dopoguerra, ma senza possibilità di emigrazione esterna, senza sviluppo industriale, in assenza delle politiche statali di piena occupazione e di welfare e senza la forza delle organizzazioni politiche e sindacali necessarie a sostenerle. Anzi, le politiche di liberalizzazione ed austerità imposte dalle IFIs  nel corso degli ultimi cinque decenni ai così detti “paesi in via di sviluppo” hanno avuto come effetto quello di distruggere lo stato sociale in via di costruzione ed impedire gli investimenti, che così sono diventati dipendenti dal grado in cui le riforme implementate da questi paesi favorivano gli interessi del settore privato e degli investitori internazionali in particolare. 

In tale contesto, l’inevitabile risultato dell’esodo dei contadini dalle campagne alle città è una situazione di crescente povertà e disoccupazione. In un contesto non regolamentato – o, peggio, nel quale le riforme riflettono l’asse d’interessi tra grandi capitali e borghesie locali e del ricatto esercitato dai capitali stessi (i famosi “mercati”) e dalle IFIs – questo conduce inevitabilmente alla maggiore ricattabilità dei lavoratori e dunque ad un abbassamento dei salari e ad una riduzione dei diritti. In un contesto come quello cittadino, infatti, l’accesso ai beni di sussistenza non può che avvenire mediante scambio di moneta, di lavoro in cambio di moneta. Se i servizi di base ed il minimo necessario per la sopravvivenza non è garantito – per esempio sotto forma di sussidi – le paghe scendono, e spesso vanno al di sotto del livello di sussistenza. Si diffonde quella tipologia di lavoro, eufemisticamente definita informale, anche questa una dinamica segnante degli ultimi decenni. Al contempo, la presenza di questa vasta riserva di potenziali lavoratori schiacciati dal bisogno offre un elemento di ricatto nei confronti di coloro che sono attualmente impiegati come manodopera nei settori formali[18]

La distinzione i due settori è più tenue di quanto la definizione non lasci credere; è nel settore formale che vengono catalogati gli sweatshop che costituiscono il frutto più puro della globalizzazione neoliberista e di quello che l’economista Samir Amin definiva “il capitalismo reale”[19]. L’esempio più famoso di questi sweatshop, fabbriche nelle quali vigono una disciplina e sfruttamento di tipo servile, e la cui produzione è spesso diretta all’esportazione nei paesi ricchi, è costituito dalle fabbriche di quelle compagnie alle quali Apple (la quale di per sé, come la maggior parte delle grandi marche occidentali, non ha nemmeno uno stabilimento produttivo[20]) commissiona l’assemblaggio dei propri prodotti. Il basso costo della produzione, determinato da uno schiacciamento dei salari ed un maggiore sfruttamento dei lavoratori della “periferia” del sistema capitalistico assicurano la possibilità di rivendere tali beni a basso prezzo e di trarre alti profitti, 

La produzione a basso costo di prodotti di consumo da rivendere sui mercati occidentali, come quella che si realizza in Asia; lo sfruttamento della popolazione delle bidonvilles africane per recuperare dalle discariche nelle quali vengono riversati i rifiuti speciali dei paesi imperialisti quei metalli rari da reimpiegare nella produzione di quegli stessi beni; l’estrazione di minerali e risorse da terreni dai quali è stata cacciata la maggior parte della popolazione residente, tutti questi elementi, necessari per garantire i livelli di consumo dei paesi “occidentali”, e con questa la remunerazione dei capitali investiti poggiano, come anticipato, su due elementi. 

Il primo è il basso costo e quindi il super-sfruttamentodi una quota crescente della popolazione mondiale; tale situazione di super-sfruttamento è resa possibile dal mantenimento di condizioni di vita bassissime, dal permanere in una condizione di grave povertà della maggior parte della popolazione mondiale e dal ricatto costituito dalla “concreta possibilità della morte per fame”[21]o per mancanza di beni di prima necessità. Vale a dire su quelle condizioni storicamente determinate dallo sfruttamento da parte dei paesi del centro del sistema economico globale – i cosiddetti paesi “industrializzati” – sui paesi “in via di sviluppo” o, meglio, ai quali prima sulla base di forme di dominio coloniale o semi-coloniale poi mediante forme neo-colonialiste, interventi militari e “aggiustamenti strutturali” sono state imposte condizioni di sottosviluppo. Da questo punto di vista la povertà non costituisce il corollario di uno scarso inserimento nei circuiti del capitalismo globale, quanto piuttosto il risultato e la condizione stessa per la riproduzione di quel medesimo sistema. 

Il secondo elemento, corollario del primo, consiste infatti nella netta separazione della forza lavoro globale in due categorie distinte, i cui confini risultano essere sostanzialmente invalicabili. Quella tra i lavoratori dei paesi imperialisti e quella delle popolazioni dei paesi “del Sud”. La manifestazione di tale separazione è chiaramente rintracciabile nelle politiche migratorie poste in essere da quegli stessi paesi che beneficiano della condizione di sfruttamento e povertà del resto del mondo.  Queste infatti, non semplicemente prevedendo il rimpatrio ma, rendendo concretamente pericoloso il viaggio e privando chi riesce a compierlo di quei diritti che discendono dal riconoscimento legale, la forza lavoro del Terzo Mondo rimanga in condizione di segregazione. Vale a dire in condizioni di ricattabilità e con paghe di molto inferiori della media del paese ospitante – ma comunque maggiori di quelle del paese di provenienza, a riprova delle condizioni esso vigenti – per coloro i quali riescono a migrare, mentre la possibilità di cercare lavoro o anche solo viaggiare in paesi con condizioni migliori rimane di fatto preclusa alla maggior parte della popolazione mondiale, e non per motivi di prezzo. 

L’emigrazione è una fuga dalla povertà ed avrebbe effetti disastrosi – in un’economia capitalistica, che ha nelle differenze e nelle diseguaglianze una condizione necessaria che tende a perpetuare ed allargare – sul prezzo del lavoro mondiale, determinando il collasso del sistema. La libertà di movimento dei lavoratori, che in questo modo si troverebbero in una condizione uguale a quella di capitali e merci, condurrebbe ad un vasto spostamento di persone che, al di là degli effetti politici, porterebbe in astratto – vale a dire secondo la logica dell’economia –  ad una “parificazione” del prezzo del lavoro a livello mondiale. I lavoratori del “sud” guadagnerebbero di più rispetto alla situazione attuale, quelli del “nord” di meno rispetto ad oggi. Tuttavia tale assetto sarebbe incompatibile non solamente con le strutture produttive attuali, ma inconciliabile con le necessità stesse del capitalismo. L’aumento dei prezzi della produzione ed il cambiamento nella struttura dei consumi (stante il differente livello dei consumi tra paesi “ricchi” e “poveri”, il quale rimanda a differenze qualitative e di tipologia) e nel loro livello tale da rendere impossibile un saggio di profitto medio sufficiente per il funzionamento stesso del capitalismo. Cambierebbe infatti non solamente il rapporto matematico, ma anche il tipo di relazione tra domanda ed offerta. 

La dipendenza del sistema capitalista dalle diseguaglianze e le conseguenti politiche migratorie poste in essere dai paesi imperialisti, atte ad impedire il libero spostamento di più della metà della popolazione, hanno portato Amin a coniane l’espressione di apartheid su scala globale. Un’apartheid che è parte integrante e condizione necessaria per la sopravvivenza di un sistema economico e sociale globale ed integrato – che non è possibile dividere ed analizzare in entità separate, come vorrebbe una certa economia dello sviluppo –  delle cui trasformazioni sono esito anche i cambiamenti sperimentati nel corso degli ultimi cinque decenni nel centro. E sui quali, spesso esclusivamente, si concentra l’analisi della sinistra di questi paesi. L’accettazione di tale stato di cose, della strutturale differenza tra paesi ricchi e paesi cui viene imposto un modello di sviluppo dipendente, conduce infatti tali forze ad analisi limitate all’esperienza dei loro paesi. Con tutte le limitazioni che un’analisi parziale implica dal punto di vista della costruzione di una strategia di azione.

Per questo un’azione decisa nel contrastare le attuali politiche migratorie basate su respingimenti e sulla consapevole esposizione dei migranti a gravi pericoli e difficoltà non può che essere parte, per essere efficace, di un coordinamento politico con le forze dei “paesi di provenienza”, al fine di disegnare una strategia di lotta comune che abbia come obbiettivo un sostanziale cambiamento dei rapporti tra nord e sud del mondo, con la fine delle politiche di stampo neocoloniale e l’imposizione di politiche funzionali agli interessi dei primi. Un cambiamento sistemico dunque, lo stesso richiesto anche per affrontare l’attuale crisi ambientale.

Produzione, debito e consumo, a mo’di postilla

Ilsuper-sfruttamento– vale a dire una situazione in cui il rapporto tra quanto viene percepito dal lavoratore e quanto il suo lavoro frutta a chi lo impiega è inferiore se confrontata ad un’altra, in questo caso rispetto a quella dei paesi occidentali – di quella della popolazione mondiale che vive nei paesi della periferia è condizione necessaria per assicurare alti livelli di consumo nei paesi del nord. Senza tali livelli di consumo la possibilità di remunerare i capitali, il motore fondante dell’economia capitalista, gli investimenti, verrebbe meno. 

Le politiche neoliberiste attuate a partire dalla fine degli anni ’70 hanno condotto nei paesi del “centro” ad una stagnazione se non ad una riduzione dei salari reali dei lavoratori. Un cambiamento in larga parte coinciso con un diffuso processo di de-industrializzazione di questi paesi, l’altra faccia della compressione del costo e del super-sfruttamento del lavoro nel Terzo Mondo. In queste condizioni il basso costo di produzione delle merci e dei materiali dalle quali sono composte ha la doppia funzione di permettere un prezzo alla vendita relativamente più basso oggi rispetto a quello disponibile qualche decennio fa – un cambiamento chiaramente riscontrabile, per esempio, nei prezzi dei prodotti di consumo di grandi aziende del settore dell’abbigliamento oppure del comparto sportivo – e di mantenere alto il livello dei profitti[22]. Gli alti livelli di consumo nei paesi del centro è dunque il frutto di un trasferimento di valore operato ai danni delle popolazioni dei paesi sottosviluppati. Dunque, semplificando, il meccanismo di accumulazione capitalistico determina la necessità di creare sempre maggiori sbocchi di investimento per i capitali, accresciuti dai profitti ottenuti nel “ciclo di accumulazione” precedente – questo tuttavia, come visto, dipende dalla possibilità di ottenere un certo livello di profitto, garantito dai bassi costi di produzione nei paesi del Terzo Mondo. Tuttavia affinché si realizzi un profitto ciò che viene prodotto deve essere venduto.

Di conseguenza, l’unico modo per mantenere i livelli della domanda in condizioni di salari stagnanti è rappresentato dal meccanismo del debito. La possibilità di accedere al credito al consumo ha infatti rappresentato la via d’uscita dalla situazione dall’empasse sperimentata dalle economie industriali alla fine degli anni ‘60: raggiunta la piena occupazione ed un elevato livello dei salari, garantiti dai rapporti di forza tra lavoratori e capitalisti, il mantenimento di un tasso di profitto in grado di giustificare l’investimento avrebbe richiesto un contemporaneo aumento della domanda aggregata – i prodotti avrebbero dovuto essere acquistati –  la quale a sua volta non sarebbe potuta che provenire da un aumento del livello medio dei salari, condizione che però avrebbe inevitabilmente eroso proprio il saggio di profitto[23]. L’esito di tale contraddizione, unitamente ad altri fattori, fu la liberalizzazione dei movimenti di capitali, l’ “aggiustamento strutturale” delle economie dei paesi del Terzo Mondo in base agli interessi dei capitali occidentali e la delocalizzazione delle strutture produttive. Grazie al credito, quindi, i consumatori occidentali poterono mantenere ed addirittura accrescere il livello dei propri consumi, mantenendo elevati i profitti. 

Al contempo, tuttavia, questi profitti necessitavano e necessitano di trovare ulteriori sbocchi d’investimento. A “risolvere” tale problema è intervenuta la finanza, la quale era in grado di “riciclare” e trarre profitti dai debiti e dai mutui contratti dai consumatori occidentali e dai titoli di stato, salvo produrre ciclicamente bolle e crisi nel momento in cui la contraddizione tra il volume dei prestiti necessario per garantire determinati livelli di consumo si manifesta – in tal senso la bolla immobiliare statunitense del 2008 fu il risultato della necessità delle banche di disporre di sempre maggiori “prodotti finanziari”, senza considerare che gli immobili rappresentano a loro volta asset che possono fungere da garanzia per la concessione di ulteriore credito. 

Un sistema iniquo ed instabile che per garantire i profitti di pochi condanna la parte maggiore della popolazione mondiale alla povertà, legando il contadino indiano al cittadino occidentale, la cui ricchezza materiale non corrisponde al livello della qualità di vita – pure incomoarabilmente maggiore della sua controparte che, di fatto, la produce.  


[1]K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Piccola biblioteca Einaudi (Einaudi, 2010), https://books.google.it/books?id=MuR5cgAACAAJ.

[2]UN statistics: https://unstats.un.org/sdgs/report/2019/goal-11/

[3]M. Davis, Planet of Slums(Verso, 2007), https://books.google.it/books?id=LLhqI1d0OwYC.

[4]https://www.unicef-irc.org/research/forced-migration-children-and-land-grabbing/ population displacement

[5]Patralekha Chatterjee, «Agricultural Reform in India: Farmers versus the State», The Lancet Planetary Health 5, n. 4 (1 aprile 2021): e187–89, https://doi.org/10.1016/S2542-5196(21)00060-7.https://www.thelancet.com/journals/lanplh/article/PIIS2542-5196(21)00060-7/fulltext?rss=yes

[6]A. Sen, Poverty and Famines: An Essay on Entitlement and Deprivation, Oxford India paperbacks (Oxford University Press, 1999), https://books.google.it/books?id=b8TRPQAACAAJ.

[7]H. Ayeb e R. Bush, Food Insecurity and Revolution in the Middle East and North Africa: Agrarian Questions in Egypt and Tunisia(Anthem Press, 2019), https://books.google.it/books?id=O9KwDwAAQBAJ.

[8]Jampel Dell’Angelo et al., «The Tragedy of the Grabbed Commons: Coercion and Dispossession in the Global Land Rush», World Development92 (1 aprile 2017): 1–12, https://doi.org/10.1016/j.worlddev.2016.11.005.

[9]https://www.cadtm.org/World-Bank-IMF-Guilty-of-Promoting-Land-Grabs-Increasing-Inequality

[10]U. Patnaik e P. Patnaik, Capital and Imperialism: Theory, History, and the Present(Monthly Review Press, 2021), https://books.google.it/books?id=hNnaDwAAQBAJ; M. Ajl, A People’s Green New Deal(Pluto Press, 2021), https://books.google.it/books?id=6UJ7zQEACAAJ; Harriet Friedmann, «The Political Economy of Food: The Rise and Fall of the Postwar International Food Order», American Journal of Sociology – AMER J SOCIOL88 (1 gennaio 1982), https://doi.org/10.1086/649258.

[11]Resa necessaria dalla necessità di sostenere le spese non solamente per la coltivazione ma anche per il mantenimento della propria famiglia. La struttura della produzione agricola favorita da tali modalità di sfruttamento, come detto largamente basate sulla monocoltura, fanno sì che difficilmente quello locale possa essere un mercato di sbocco, oltre a rendere necessario l’acquisto di quei prodotti che sulla base delle più differenziate modalità di coltivazione tradizionali, sarebbero prodotte dallo stesso agricoltore. Allo stesso tempo è da distinguere il mercato locale inteso materialmente come il mercato di prossimità e quello rappresentato ancora una volta dai grossisti, che in larga parte hanno il monopolio del trasferimento dei prodotti dalle campagne alle città. 

[12]Patralekha Chatterjee, «Agricultural Reform in India: Farmers versus the State», The Lancet Planetary Health5, n. 4 (1 aprile 2021): e187–89, https://doi.org/10.1016/S2542-5196(21)00060-7.https://www.thelancet.com/journals/lanplh/article/PIIS2542-5196(21)00060-7/fulltext?rss=yes

[13]Per quel che concerne I molteplici effetti dell’inserimento dei paesi che rispondono ad un modello di sottosviluppo imposto dall’esterno nelle catene del valore globale vedi anche, Samir Amin, «GLOBALISM OR APARTHEID ON A GLOBAL SCALE ?» (WORLD CONFERENCE AGAINST RACISM, Durban, South Africa, 2001), 14.

[14]M. Ajl, A People’s Green New Deal(Pluto Press, 2021).

[15]È necessario sottolineare che le opinion espresso in questi paper non sono necessariamente quelle del segretariato della Conferenza. UNCTAD, The 2008 Food Price Crisis: Rethinking Food Security Policiesby Anuradha Mittel,  G-24 Discussion Paper Series n. 56, 2009 : https://unctad.org/system/files/official-document/gdsmdpg2420093_en.pdf

[16]Ray Bush, Janet Bujra and Gary Littlejohn The accumulation of dispossession, Review of African Political Economy Vol. 38, No. 128, Land: a new wave of accumulation by dispossession in Africa?(June 2011), pp. 187-192

[17]W.F. Bello, The Food Wars(Verso, 2009), https://books.google.it/books?id=y-jtAAAAMAAJ.

[18]sebbene spesso la distinzione tra i due sia più tenue di quanto la definizione non lasci credere.

[19]Amin, «GLOBALISM OR APARTHEID ON A GLOBAL SCALE ?»WORLD CONFERENCE AGAINST RACISM

(Durban, South Africa, 28 August 1st September 2001)

[20]J. Smith, Imperialism in the Twenty-First Century: Globalization, Super-Exploitation, and Capitalism’s Final Crisis(Monthly Review Press, 2016), https://books.google.it/books?id=HPQWCgAAQBAJ.

[21]L’espressione usata è ripresa da Polanyi, il quale a sua volta la riprendeva da documenti del XIX secolo. Polanyi infatti mostra come il “mercato del lavoro” lungi dall’essere qualcosa di naturale è il risultato di un complesso insieme di azioni politiche volte a creare le condizioni entro le quali la forza lavoro non ha altra scelta che vendere la propria forza lavoro, e vederla alle condizioni ai capitalisti più favorevoli. Va da sé che il mantenere i lavoratori in una condizione di estrema povertà e continuata necessità risulti, nelle condizioni proprie della metà del XIX secolo in Europa e dei paesi del Terzo Mondo oggi, il principale strumento. Per quel che riguarda i lavoratori del “centro” del sistema capitalistico, le differenti condizioni sono legate – come si vedrà più avanti – alle lotte sociali condotte e alla loro posizione al centro del sistema imperialistico: questi, assicurando i livelli di consumo necessari per la remunerazione di capitale, beneficiano infatti dei benefici derivanti dalla “rendita coloniale”, vale a dire delle condizioni di super sfruttamento dei lavoratori della periferia e del valore da questi prodotto e trasferito nel centro. 

[22]  Smith.

[23]U. Patnaik e P. Patnaik, Capital and Imperialism: Theory, History, and the Present(Monthly Review Press, 2021).