DEMOCRAZIA SINDACALE: IL 28 GIUGNO SI E’ SCELTA LA STRADA SBAGLIATA

Il 28 giugno è stato siglato l’accordo tra Confindustria e CGIL, CISL e UIL sulle relazioni sindacali.

Molti commentatori lo hanno definito un passo in avanti rispetto alla situazione creatasi a seguito delle vicende di Pomigliano e Mirafiori, alla creazione della newco da parte di Marchionne, al referendum sotto ricatto occupazionale dei lavoratori FIAT.

Certamente possiamo dire che le nuove regole non sanano – anzi per certi versi aggravano – la situazione (creatasi a seguito del referendum del 1995 sull’art.19 dello Statuto dei Lavoratori, e voluta anche da molti che sono stati poi colpiti dalla scure Marchionne e dagli accordi separati) per cui titolare dei diritti sindacali (e quindi della concreta agibilità sindacale nei luoghi di lavoro) è solo l’associazione firmataria dei contratti collettivi, anche aziendali, applicati nell’unità produttiva, indipendentemente dal suo grado di rappresentatività. La situazione per cui – e la vicenda Fiat ha mostrato fino in fondo quale è l’essenza della normativa vigente – la controparte datoriale può scegliere il proprio interlocutore sindacale, portarlo alla firma di un accordo e per questa via conferirgli la titolarità dei diritti sindacali, lasciando fuori dalla porta qualsiasi altro soggetto, anche quello più rappresentativo.

Da più parti (in pieno ciclone Marchionne), e specie a sinistra, si auspicava finalmente l’approvazione di una legge che – riprendendo in parte i principi contenuti nella legge Bassanini / D’Antona relativa al pubblico impiego – prevedesse la misurazione della effettiva rappresentatività delle diverse sigle ed aggregazioni sindacali con riguardo sia al singolo posto di lavoro o alla singola azienda che all’intera categoria o all’intero comparto contrattuale, utilizzando il dato medio tra risultati “elettorali” e dati associativi, ovvero tra consensi ricevuti per la nomina di rappresentanze sindacali elettive (con diritto di voto riconosciuto anche ai lavoratori a tempo determinato) e deleghe alla riscossione del contributo sindacale, con la definizione di percorsi trasparenti e certificabili per la misurazione del dato elettorale e della consistenza associativa delle diverse sigle, e con il riconoscimento del requisito della sufficiente rappresentatività nell’ambito aziendale, di comparto o di categoria a seguito del superamento di una soglia significativa e raggiungibile (nel pubblico impiego è il cinque per cento). E d’altro canto si auspicava l’adozione di regole certe anche per la contrattazione, ed in particolare la partecipazione alle trattative sindacali degli organismi sindacali elettivi e delle OO.SS. rappresentative, la stipulazione dei contratti collettivi di lavoro ai diversi livelli di negoziazione con la sottoscrizione delle organizzazioni sindacali in possesso nel loro insieme di almeno il 51 per cento di rappresentatività, la sottoposizione degli accordi, attraverso il referendum, al vaglio dei lavoratori interessati quale condizione di validazione degli stessi. In particolare si auspicava – ragionevolmente – che il godimento dei diritti sindacali “onerosi” (permessi e distacchi) fosse collegato al requisito del raggiungimento della soglia di rappresentatività (in base al principio che la libertà sindacale non può divenire una variabile dipendente del processo negoziale e degli accordi contrattuali eventualmente sottoscritti) e che altri diritti definibili come “non onerosi” per il datore di lavoro (bacheche, diritto di informazione, assemblee, riscossione su delega dei singoli lavoratori dei contributi sindacali, possibilità di partecipare con pieni strumenti alle “campagne elettorali” per la nomina delle rappresentanze elettive) fossero riconosciuti a tutte le organizzazioni sindacali indipendentemente dal loro grado di rappresentatività.

La proposta di legge di iniziativa popolare avanzata dal Forum Diritti Lavoro – insieme a diverse sigle sindacali, in primis l’USB – va in questa direzione.

Nell’accordo di giugno, invece, la democrazia diventa non una conquista per tutti ma un fatto privato e negoziabile, un bene che può essere rivendicato solo da alcuni soggetti. Ed infatti se, come avviene oggi (a seguito di un altro referendum del 1995, promosso dai radicali), le deleghe relative ai contributi sindacali (tranne che nel pubblico impiego) vengono rilasciate solo in favore delle organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti di categoria, prevedere che “ai fini della certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali per la contrattazione collettiva nazionale di categoria, si assumono come base i dati associativi riferiti alle deleghe relative ai contributi sindacali conferiti dai lavoratori”, che saranno certificate dall’INPS, e da ponderare “con i consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle rappresentanze sindacali unitarie da rinnovare ogni tre anni”, significa varare un sistema bacato, una democrazia che vale solo per alcuni (anche il Sudafrica prima di Mandela era un sistema democratico, ma alla democrazia partecipavano solo quelli con la pelle bianca). Ed allora o si ha il coraggio di dire “facciamo una legge, che valga per tutti: chi ha il cinque (o il quattro o il tre) per cento è rappresentativo” o si sta bluffando, un po’ come accaduto negli anni novanta, quando si vararono le r.s.u. ma un terzo dei posti negli organismi elettivi era riservato comunque a CGIL, CISL e UIL.

Resta assolutamente a discrezione delle confederazioni firmatarie l’accordo del 21 giugno se promulgare le elezioni delle rappresentanze unitarie o se, al contrario, mantenere in vita le proprie r.s.a (ovvero gli organismi titolari dei diritti costituite nell’ambito delle associazioni firmatarie degli accordi: quelle scelte dalla controparte, come accaduto in Fiat); i contratti collettivi aziendali potranno derogare (sia pure solo nelle materie delegate dal contratto nazionale di lavoro o dalla legge) in senso peggiorativo al contratto di livello superiore (e le condizioni peggiorative graziosamente il datore di lavoro concederà per mantenere in vita lo stabilimento: “strumenti contrattuali mirati ad assicurare la capacità di aderire agli specifici contesti produttivi”, “specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro” come avvenuto in Fiat); l’intervento (referendario) dei lavoratori interessati viene reso praticamente impossibile (salvo che su iniziativa di una delle confederazioni firmatarie).

Non sappiamo se l’intesa potrà soddisfare Marchionne, e se la Fiat uscirà da Confindustria, ma è facile capire che non è così che si rimette (o si mette) in piedi un sistema di regole, che partano dalla registrazione del consenso nei luoghi di lavoro, e che faccia della democrazia sindacale e della partecipazione dei lavoratori il punto imprescindibile e la base necessaria di una nuova pagina nell’economia del nostro Paese, tormentato sempre di più dalla voracità di pochi e dalla incapacità della politica e della sfera pubblica di stabilire limiti, prerogative e garanzie, senza i quali – come stiamo assistendo quotidianamente – l’intero sistema rischia di accartocciarsi su se stesso. Regole, limiti prerogative e garanzie per tutti devono nascere dalla legge (che vale per tutti).

Una legge per la democrazia nei luoghi di lavoro e per i diritti sindacali dei lavoratori e delle lavoratrici è ciò che oggi occorre. Farà parte del programma della coalizione alternativa all’attuale maggioranza?

Di Arturo Salerni