Arturo Salerni – NUOVO ARTICOLO 18

Riportiamo di seguito l’articolo sul nuovo articolo 18 scritto dall’avv. Arturo Salerni, di Progetto Diritti, e pubblicato sul sito de Linkontro (WWW.LINKONTRO.INFO)

 

Arturo Salerni

 

NUOVO ARTICOLO 18

Come cambia (in peggio) il diritto del lavoro

 

 

Introduzione

 

Purtroppo è fatta. Le camere hanno approvato il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro. Lo hanno fatto su impulso del governo, seguendo – con poche eccezioni – le indicazioni provenienti dai grandi potentati economici e finanziari europei. Si approfitta della crisi finanziaria, non solo per ottenere rendite sproporzionate attraverso la lievitazione degli interessi sul debito pubblico, ma come occasione per eliminare le garanzie conquistate dal mondo del lavoro attraverso percorsi durati diversi decenni.

 

La cosiddetta riforma viene propagandata come inevitabile, e viene giustificata con

l’impossibilità, nel nostro paese, per una impresa in gravi difficoltà economiche di ridurre il proprio personale. E’ chiaro che si tratta di una balla, in quanto il nostro ordinamento prevede espressamente la possibilità di licenziare per motivi economici (e non potrebbe essere altrimenti), sia ricorrendo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo (laddove siano coinvolti fino a cinque dipendenti) o all’istituto del licenziamento collettivo (che riguarda più di cinque dipendenti). Peraltro l’OCSE pone l’Italia al di sotto della media europea per quanto attiene agli indici della rigidità in uscita (ovvero del grado di tutela del lavoratore dai licenziamenti), e ciò prima della quasi unanime approvazione del nuovo testo in tema di licenziamenti.

 

 

1. La menzogna sui licenziamenti discriminatori

 

Una delle menzogne propagandistiche sulla riforma è quella per cui l’art. 18 è stato

integralmente salvato per quanto attiene ai “licenziamenti discriminatori” e che la sua

portata viene estesa anche alle aziende con meno di quindici dipendenti (limite

dimensionale al di sotto del quale non opera la tutela reale introdotta dall’art. 18 dello

Statuto dei Lavoratori). Ma si tratta appunto di una falsità, in quanto l’art. 18 non si occupa di licenziamenti discriminatori, rispetto ai quali la tutela è presente nel nostro ordinamento da prima dello Statuto dei Lavoratori, essendo stata introdotta dalla legge 604 del 1966 (applicabile a tutte le imprese a prescindere dal numero dei dipendenti). Che prevede la nullità del “licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali”. La disciplina degli atti di recesso nullo da un contratto di durata comporta – per il nostro codice civile – il ripristino del rapporto ed il risarcimento dell’intero danno, e tale tutela invece viene ad essere limitata dalla nuova normativa, in quanto il nuovo art. 18 prevede una limitazione (nel massimo di dodici mensilità) dell’indennità risarcitoria, oltre la reintegra, e ciò anche nell’ipotesi in cui il processo con cui si giunge all’accertamento della natura discriminatoria del licenziamento duri un tempo maggiore ed il lavoratore licenziato per discriminazione resti disoccupato.

 

 

2. Reintegra di fatto abolita per licenziamenti disciplinari, economici e collettivi

dichiarati illegittimi

 

La nuova formulazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non introduce nessuna nuova causa di licenziamento, ma incide solo sul trattamento sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, ovvero su quale sia la conseguenza per il lavoratore ed il datore di lavoro una volta che sia stata accertato il fatto che il licenziamento è stato comminato in violazione delle leggi esistenti in materia, in quanto privo di giusta causa o di giustificato motivo. In tal caso si stabiliscono tetti massimi irrisori ai risarcimenti che saranno disposti in favore dei lavoratori licenziati illegittimamente, risarcimenti che vanno dai sei mesi (paradossalmente per la violazione più palese, il licenziamento privo di motivazione), fino a ventiquattro mesi. La reintegrazione viene di fatto abolita, sia per il licenziamento che verrà definito, strumentalmente, come disciplinare, rimanendo la stessa limitata a casi marginali, che per il licenziamento che verrà definito, strumentalmente, come economico – nel quale il reintegro previsto sulla carta è limitato ad ipotesi del tutto impraticabili – così come per i licenziamenti collettivi illegittimi, aprendo la strada ad espulsioni di massa di lavoratori.

 

 

3. Licenziamenti per motivi oggettivi: non solo crisi economica, ma anche

infortuni e malattie

 

Il licenziamento per motivo oggettivo riguarda i licenziamenti non causati da una condotta colposa o dolosa del lavoratore ma da condizioni “oggettive”. Il nuovo testo dell’art. 18 disciplina separatamente quelli legati alla soppressione del posto di lavoro da quelli invece connessi alla condizione del lavoratore per condotte che non possono essergli addebitate a titolo di colpa, quando i lavoratori diventano inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia, nell’ipotesi dei disabili obbligatoriamente assunti, in caso di aggravamento o di variazioni dell’organizzazione del lavoro, dei lavoratori con sopravvenuta inidoneità fisica o psichica, dei casi di superamento del periodo massimo di conservazione del posto in caso di malattia. In tali casi se la causale del licenziamento è fondata, il recesso è legittimo ed il lavoratore non può pretendere nulla. Ma se il licenziamento è infondato (o se la malattia o invalidità è stata colposamente o dolosamente cagionata dal datore) non vi è dubbio che esso sia stato intimato con l’unico motivo illecito della non piena condizione di salute dei lavoratori: non aver inserito tale tipologia di recesso nelle previsioni dettate per i licenziamenti discriminatori – dando la facoltà, come nel caso dei licenziamenti disciplinari, al giudice di disporre solo un indennizzo invece che la reintegra, tranne che in casi eccezionali – evidenzia il senso feroce della nuova normativa, suggerendo al giudice che malati e disabili sono oggettivamente un peso per la competitività delle aziende. I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di natura economica sono quelli determinati “da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. In tali casi –

qualora il motivo posto a fondamento del recesso sia falso o comunque non bastevole a giustificare il recesso – viene previsto il mero indennizzo da dodici a ventiquattro mensilità, e si prevede soltanto che il giudice possa disporre la reintegra del lavoratore “nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. E’ la prima volta che viene utilizzato nella disciplina lavoristica il verbo “può” in relazione alla sanzione che un giudice deve comminare in presenza di una condotta prevista come illegittima, e quindi anche nel caso in cui sia stata accertata “la manifesta insussistenza del fatto” egli comunque “può” non ordinare la reintegra, di fatto sottraendo a lavoratore ogni possibilità di appello. La norma aggiunge che anche nel caso di licenziamento per motivi economici “qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo” essendo evidente che dietro i licenziamenti economici fasulli si nascondono spesso ipotesi discriminatorie.

 

 

4. Solo un risarcimento per i licenziamenti non motivati

 

L’art. 7 dello Statuto dei lavoratori impone l’obbligo della preventiva e specifica

contestazione dell’addebito prima di ogni licenziamento disciplinare. L’art. 2 della L.604/66 imponeva l’obbligo per il datore di inviare le motivazioni del recesso in ogni altro caso su semplice richiesta del lavoratore. Sino ad oggi la mancata preventiva contestazione dell’addebito disciplinare o il mancato invio dei motivi del licenziamento per motivi oggettivi hanno portato alla dichiarazione di nullità/inefficacia del recesso con applicazione della piena tutela, in quanto la mancata comunicazione dei motivi rende per motivi processuali impossibile al lavoratore approntare qualsivoglia difesa per illustrare la illegittimità del licenziamento. La riforma prevede che nelle ipotesi in cui datore abbia volutamente violato tali obblighi di motivazione si riconosce in favore del lavoratore solo un’indennità risarcitoria compresa tra sei e dodici mensilità. Si sceglie così di premiare con una lieve sanzione l’imprenditore scorretto che si rifiuta di motivare il recesso, premiando le pratiche peggiori.

 

 

5. La nuova disciplina dei licenziamenti collettivi

 

La nuova normativa interviene anche sulla disciplina dei licenziamenti collettivi, quelli in cui non viene richiesta alcuna condizione oggettiva essendo riconosciuto – nella normativa precedente la riforma – il diritto del datore alla scelta sulla complessiva quantificazione del personale necessario al funzionamento dell’impresa e per il lavoratore in tali casi al diritto soggettivo alla conservazione del posto del lavoro si sostituisce l’interesse alla ntrasparenza della procedura, discutendosi su quanto personale licenziare (a seguito del confronto con le organizzazioni sindacali sulla base della necessarie informazioni che l’imprenditore deve fornire) e su chi licenziare (dovendo l’imprenditore non scegliere i dipendenti più sgraditi ma stabilire criteri oggettivi e comunicare la “puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta”). La giurisprudenza afferma – proprio perché l’unica tutela del posto di lavoro del dipendente è la trasparenza della procedura – che il

licenziamento è illegittimo e il lavoratore va reintegrato quando non sia stato possibile affrontare con le organizzazioni sindacali la quantificazione dei lavoratori da licenziare per mancata preventiva informazione, e quando non sia possibile comprendere chi licenziare essendosi l’imprenditore rifiutato di determinare oggettivi criteri di scelta. E per la giurisprudenza questi vizi non potevano essere sanati dall’accordo sindacale. Invece la nuova normativa prevede che i vizi della comunicazione “possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale”. Si considera un vizio di forma la strada per cui le imprese si scelgono i lavoratori da licenziare non in

base a criteri oggettivi ma su scelte arbitrarie (malattie, gravidanze, piccole sanzioni

disciplinari, rivendicazione di propri diritti, affiliazioni sindacali ecc.), vizio sanzionabile solo con un indennizzo compreso tra dodici e ventiquattro mensilità.

 

 

6. Non solo art. 18, ma anche più precarietà e meno ammortizzatori

 

L’ attuale articolo 18 dello Statuto è una norma “a costo zero” per il datore di lavoro che rispetta le legge, ed interviene solo nei confronti dei datori di lavoro che non rispettano la legge e licenziano illegittimamente i propri dipendenti. In nome delle politiche di austerità e di liberalizzazione del mercato del lavoro volute dall’Unione Europea quindi, cancellando l’articolo 18, si realizza ciò che fu impedito al governo Berlusconi. Che tale normativa faciliti la crescita è argomento talmente illogico ed irreale da non meritare alcun commento.

 

Il disegno di legge Monti-Fornero, mentre cancella l’articolo 18, non contrasta ma facilita il dilagare della precarietà, non potenzia gli ammortizzatori sociali per renderli universali ma li riduce nei processi di riconversione industriale. Il progetto Monti-Fornero è stato fatto proprio dalla maggioranza PD-PdL-UDC che ha approvato addirittura emendamenti peggiorativi rispetto al testo del Governo: infatti si raddoppia il periodo di durata massima dei contratti precari che possono essere stipulati a prescindere da esigenze di natura oggettiva, ovvero acausali (da 6 a 12 mesi), si consente un ampio utilizzo di voucher in agricoltura, si sterilizza la normativa antifraudolenta sulle partite IVA. Rimane intanto quasi immutato l’ampio spettro di possibilità di contratti di lavoro precari introdotto dal decreto legislativo Maroni 276/2003. Con l’entrata in vigore della nuova normativa un datore di lavoro, del tutto legittimamente, potrà costruire pressoché la propria intera forza lavoro di basso livello su contratti precari purché rinnovati ogni dodici mesi.

 

 

Conclusioni. Riforma Monti-Fornero: un atto di lotta di classe, da abrogare

 

Se a ciò si aggiunge che l’intervento sugli ammortizzatori sociali ha condotto ad una

generale riduzione della portata degli stessi si comprende fino in fondo il senso di questo inaccettabile intervento. Un atto di lotta di classe, della classe dominante nei confronti della classe lavoratrice, avallato dalla quasi generalità dello schieramento politico, per fare del mondo del lavoro un universo ricattabile, nel quale la mancanza di tutela reale renderà impossibile la rivendicazione di diritti, di migliori condizioni, di tutela della salute, e la lotta alle discriminazioni.

 

Una nuova stagione politica dovrà necessariamente passare dall’abrogazione di questa normativa, appena introdotta e che ci riporta indietro di decenni.