Perche’ il Tribunale di Roma ha torto (e, con esso, anche la Commissione Europea)

di Matteo Centini, dottorando di ricerca  in diritto costituzionale e pubblico generale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma “La Sapienza”
Premessa 

Le brevi osservazioni che seguiranno hanno ad oggetto l’ordinanza 13 agosto 2008 con cui il Tribunale di Roma ha rigettato il ricorso proposto dall’Associazione Progetto Diritti ex art. 44 d.lgs. n. 286/1998 contro le ordinanze nn. 3676, 3677 e 3678 adottate dal Presidente del Consiglio dei ministri in data 30 maggio 2008 per fronteggiare la c.d. emergenza concernente gli insediamenti di comunità nomadi nelle regioni Lazio, Campania e Lombardia.
In particolare, va precisato sin d’ora che si avrà attenzione ai soli spunti di ordine giuridico, prescindendo da considerazioni di ordine politico, le quali sfuggono alle competenze del sottoscritto. Peraltro, non ci si diffonderà sulla natura e la disciplina della legislazione antidiscriminatoria (artt. 43-44 d.lgs. n. 286/1998, d.lgs n. 215/2003 e n. 216/2003), atteso che di essa è fornita una puntuale ricostruzione nel ricorso promosso dall’Associazione.

Lo strumento dell’ordinanza di necessità ed urgenza

Anzitutto, desta perplessità il ricorso da parte del Governo allo strumento dell’ordinanza di necessità ed urgenza. Tale tema, occorre premettere, può apparire eccentrico rispetto alla questione sottoposta al giudice romano, ossia quella dell’eventuale discriminatorietà dei provvedimenti adottati dal Governo nei confronti della comunità rom, ma in realtà, a parere di chi scrive, poteva essere considerato dal giudice con più attenzione.
Le ordinanze in parola sono atti a contenuto atipico cui l’amministrazione può ricorrere – laddove sia previsto dalla legge, in omaggio all’irrinunciabile principio di legalità – onde adottare provvedimenti idonei a fronteggiare situazioni eccezionali, anche derogando alla disciplina normativa di rango primario, ma pur sempre nel rispetto della Costituzione e dei principi generali dell’ordinamento. Si tratta, per pacifica giurisprudenza della Corte costituzionale, di atti amministrativi.
Pertanto, va subito chiarito che attraverso lo strumento de quo certamente non è possibile derogare ai principi costituzionali fondamentali e tra questi al principio della pari dignità sociale dei cittadini (gran parte della comunità rom residente in Italia è costituita, occorre ricordarlo sempre, da cittadini italiani), né al divieto di discriminazioni su base etnica, religiosa, di razza, ecc. di cui all’art. 3 co. 1 Cost..
Del resto, non sembra potersi tacere che la stessa scelta di ricorrere a tale strumento si connota di contenuto discriminatorio, atteso che il Governo ha scelto di fronteggiare il problema dell’integrazione sociale di un determinato gruppo sociale precostituendosi le condizioni per farlo senza dover rispettare tutte quelle norme, sostanziali e  procedurali, che avrebbero garantito gli interessati da atteggiamenti prevaricatori ed umilianti. Si intende dire che il Governo ha deciso di ricorrere all’ordinanza di necessità ed urgenza per affrontare la presunta “questione rom”, ma si è ben guardato dal farlo per fronteggiare altre emergenze sociali, come potrebbero essere quelle di certi quartieri “difficili” delle grandi città, dove, come notorio, la stessa polizia ha difficoltà ad entrare e a far rispettare la legalità (si pensi al caso, tristemente assurto alle cronache, del quartiere di Scampia a Napoli). 
Ma la discriminatorietà del ricorso a tale strumento si appalesa anche in forza della sua illegittimità. Anzitutto, è pacifico in giurisprudenza e dottrina, che le misure adottate con tali strumenti devono rispettare il principio di proporzionalità, ossia non devono imporre un sacrificio eccessivo agli interessi dei destinatari del provvedimento per perseguire un asserito pubblico interesse. E di certo la dignità degli individui, in specie dei minori, non può essere fatta entrare in un bilanciamento con un asserita istanza di legalità e sicurezza. Tanto più nel caso di provvedimenti “preventivi” come quello in parola, che non sono destinati a risolvere specifiche criticità, ma a irreggimentare una intera comunità.
In secondo luogo, l’illegittimità dei provvedimenti de quibus appare chiara alla luce di quella giurisprudenza che ha chiarito come la finalità ed il presupposto per l’emanazione di ordinanze di necessità ed urgenza è di provvedere con urgenza ad un evento nuovo, imprevisto ed imprevedibile imponendo ai responsabili della condotta contestata un comportamento specifico» (Cass. pen., sez. III; 22 settembre 1983). Alla luce di tale assunto, si è esclusa la legittimità del ricorso alle ordinanze atteso il carattere permanente  e risalente della situazione assuntamente dannosa. Che il caso di specie – id est la condizone dei campi nomadi – riguardi una situazione permanente e risalente non vi è chi non  veda. In ogni caso, lo stesso Consiglio di Stato ha chiarito la necessità dell’effettiva esistenza di una situazione di pericolo imminente al momento dell’adozione dell’ordinanza. Imminenza del pericolo alla quale le stesse ordinanze del Governo non hanno fatto alcun cenno, facendo piuttosto riferimento a «situazioni di estrema criticità determinatasi nel territorio della regione» ovvero «a situazioni di grave allarme sociale, con possibili gravi ripercussioni in termini di rodine pubblico e sicurezza per le popolazioni locali». Possibili, dunque, non certo probabili, e men che meno imminenti.

Perché le misure del Governo sono discriminatorie.

Il Tribunale di Roma ha rigettato il ricorso promosso dall’Associazione valorizzando il fatto che il Ministero dell’Interno ha adottato delle Linee Guida per l’attuazione delle ordinanze del Presidente del Consiglio con le quali aveva precisato:
–  che le impronte digitali saranno prelevate in conformità a  quanto disposto dall’art. 4 del R.D. 18 giugno 1931 n. 773 (TULPS), ossia solo nel caso in cui sia possibile presumere la pericolosità sociale del soggetto o questi si rifiuti di farsi identificare o sia comunque impossibile l’identificazione;
– che le risposte ai questionari sono facoltative e che, in ogni caso, le informazioni acquisite non saranno conservate in uno specifico database, utilizzabile ad altri fini;
– le impronte dei minori ultraquattordicenni saranno prelevate solo in caso di impossibilità di ulteriori forme di identificazione (per i minori infraquattordicenni, ma con età superiore ai sei anni le impronte potranno essere prelevate solo ai fini del rilascio del permesso di soggiorno; per coloro che hanno meno di sei anni le impronte potranno essere prelevate solo d’intesa con la Procura della Repubblica presso il Tribunale dei minori e in casi eccezionali, laddove il minore versi in stato di abbandono o si sospetta possano essere vittime di reato.
Alla stessa logica sembra rispondere la decisione con cui la Commissione europea ha giudicato non discriminatorie le misure adottate dal governo italiano nell’ambito del c.d. pacchetto sicurezza, atteso che il ricorso alle stesse, ed in particolare il prelevamento delle impronte digitali, è riservato ai «casi estremi».

Ebbene, sia il Tribunale di Roma che la Commissione europea fondano le proprie determinazioni sulla circostanza che il prelevamento delle impronte non sarebbe generalizzato, ma riservato nei confronti dei soggetti pericolosi, o che rifiutino l’identificazione o la cui identificazione appaia altrimenti impossibile. Circostanze, queste, tradotte grossolanamene dalla Commissione europea nel concetto di “casi estremi”, ben più evanescente e sfuggente, tanto più se deve fungere da limite all’efficacia di un provvedimento amministrativo di polizia, ossia ad un provvedimento capace di incidere sulla libertà e dignità dell’individuo. 
In tal modo, però, il giudice romano, sia detto sommessamente, ha dato mostra di non avere chiaro il concetto di discriminazione, né nella prospettiva della normativa ordinaria, come ampiamente chiarito nel ricorso dell’Associazione, cui si rimanda, né, tantomeno nella prospettiva costituzionale.

Ecco allora che risultano utili alcuni richiami in tal senso.
All’interno del principio di eguaglianza così come delineato dall’art. 3 co. 1 Cost. appare necessario, secondo la migliore dottrina (Cerri), distinguere un nucleo forte da un ambito allargato di operatività. Via via che si procede dalle differenziazioni consapevolmente introdotte ratione subiecti, alle distinzioni che si correlano a categorie sociali realmente esistenti, a quelle che, muovendo da concetti di genere non più corrispondenti a categorie sociali effettive, occasionalmente avvantaggiano o recano danno ad un consociato rispetto ad altri, a quelle infine che mai si traducono in differenziazione fra soggetti diversi, ma solo fra diverse fattispecie riferibili al medesimo soggetto, si trapassa dal nucleo forte dell’eguaglianza al controllo più vasto di ragionevolezza». Le prime due ipotesi, prosegue tale dottrina, costituiscono il c.d. nucleo forte del principio di eguaglianza, altrimenti espresso come divieto di privilegi o di discriminazioni. 
Ebbene, mentre nel caso di specie è escluso che si versi nella prima ipotesi, atteso che i provvedimenti del Governo non fanno certo esplicito riferimento alla comunità rom, appare chiaro che si versi invece nella seconda, ed altrettanto discriminatoria, ipotesi. Infatti, benché non siano menzionati esplicitamente, è chiaro che individuando i destinatari del provvedimento facendo riferimento ad un loro tratto caratteristico, ossia il nomadismo o quantomeno il loro risiedere nei cd. campi nomadi, si finisce per identificare con certezza i destinatari del provvedimento nella comunità rom. Trattasi, dunque, di un criterio di distinzione solo apparentemente oggettivo, mentre si risolve in una chiara discriminazione soggettiva su base etnica, con ciò incorrendo nel divieto di cui all’art. 3 co. 1 Cost. come sopra precisato.
Tuttavia, anche accettando l’idea che nei campi nomadi non vivano solo esponenti della comunità rom (come si è tentano da parte di alcuni commentatori, invero in modo piuttosto spericolato), residuerebbe comunque la discriminatorietà del provvedimento, atteso che l’art. 3 co. 1 Cost. vieta anche le discriminazione compiute in ragione delle condizioni sociali. Chiaro, allora, come il Governo, nell’identificare i destinatari del proprio provvedimento riferendosi alle loro condizioni di vita, abbia inteso discriminare i soggetti che vivono in condizioni sociali svantaggiate. Esso, infatti, non ha affatto disposto il prelievo delle impronte di tutti i soggetti pericolosi, ma ha deciso di andare a cercare tali soggetti tra coloro che vivono i condizioni sociali svantaggiate. 
In ogni caso, ed ecco riemergere la discriminazione su base etnica, non si è interessato di tutte le situazioni in cui esistono criticità sociali, ma solo di quelle che finiscono per coinvolgere la comunità rom, nel malcelato presupposto che solo lì allignino i soggetti più pericolosi, che occorre identificare.
Appare utile allora ricordare il pensiero di un illustre costituzionalista (Paladin) laddove chiariva che gli espliciti divieti di differenziazioni soggettive contenuti nell’art. 3 comma 1 vanno considerati come autonomi anche rispetto al principio di eguaglianza formale (che l’art. 3 co. 1 riconosce con esclusivo riferimento ai cittadini) e volgerebbero ad «una più radicale parificazione giuridica»: in particolare «il divieto delle differenziazioni aventi riguardo alla razza, non ricevendo deroghe di sorta nel seguito del testo costituzionale, determina un limite assoluto delle funzioni normativa esecutiva e giudiziaria».

Appare chiaro, allora, che la discriminatorietà è concetto relazionale, di per sé assiologicamente neutrale. Non ha nessuna importanza, infatti, che una data misura sia disposta solo in casi eccezionali, solo in base a parametri assuntamente oggettivi, se poi essa è destinata ad avere applicazione solo nei confronti di una data etnia. Un conto è dire che vanno compiute operazioni di identificazione laddove si possa ritenere esistano situazioni di illegalità diffusa (benché un tale misura dovrebbe poi confrontarsi con  la tutela costituzionale della libertà personale di cui all’art. 13 Cost.), da individuare in base a parametri oggettivi, un altro è disporre tali operazioni solo nei campi nomadi. In sostanza, non si vogliono identificare i soggetti pericolosi, ma solo quelli di etnia rom. E ciò è contrario alla Costituzione.

L’errore i cui cade il Tribunale di Roma, a mio parere, è evidente anche con riferimento al caso dei minori di età inferiore ad anni sei,. Di essi, si dice, potranno essere prese le impronte solo nei casi in cui versino in condizioni di abbandono o si sospetti che siano stati vittime di reato. Riguardo tale ultimo requisito, basti dire con non può certo adottarsi una misura lesiva della dignità di un minore sulla base di un “sospetto” di Polizia, senza l’intervento di un magistrato e una previsione legislativa che lo permetta: ciò viola ictu oculi i limiti della riserva di legge e della riserva di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost.
Per quanto attiene al caso del minore che versi in condizioni di abbandono, poi, emerge di nuovo la discriminatorietà del provvedimento dell’Amministrazione. Con esso, infatti, il Governo non ha inteso sottoporre ad identificazione tutti i minori che versino in condizioni di abbandono, ma solo quelli che vivono nei campi rom. Di nuovo, l’Amministrazione ha compiuto una differenziazione su base etnica, il che risulta in contrasto con l’art. 3 co. 1 Cost.