Ddl sulla sicurezza: il parere – negativo – del CSM

Odg. 319

1) – Delibera del Comitato di Presidenza in data 20 novembre 2008 con la quale si autorizza l’apertura di una pratica, su richiesta della Sesta Commissione, avente ad oggetto: «Parere sul disegno di legge n. 733 del 3 giugno 2008, recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”.».

(Fasc. 64/PA/2008 Relatori Dott. PATRONO, Prof. VOLPI e Dott. PEPINO)

La Commissione, dopo ampia e approfondita discussione, propone al Plenum di approvare il seguente parere: «1. Il disegno di legge n. 733-B Senato recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica” comprende, nel testo approvato dalla Camera dei Deputati il 14 maggio 2009, alcuni significativi emendamenti e una serie di disposizioni eterogenee, che vanno da modifiche al codice penale e a leggi speciali contenenti fattispecie di reato, al codice di procedura penale, a leggi in tema di misure di prevenzione, di trattamento carcerario, di immigrazione, di circolazione stradale e relative ai poteri delle autorità amministrative in ordine a situazioni in qualche modo riconducibili alla sicurezza pubblica. Anche a tali emendamenti il parere deve necessariamente estendersi al fine di evitare – come ripetutamente ritenuto dal Consiglio superiore in casi analoghi1 – di offrire al Parlamento un contributo superato dalla evoluzione del testo normativo. 2. Conviene partire dalle principali innovazioni in materia penale e di procedura penale.

2.1. V’è, anzitutto, un gruppo di disposizioni apprezzabilmente improntate a una maggior tutela di soggetti deboli e in generale delle vittime dei reati. In questo quadro si inserisce, ad esempio, l’introduzione del nuovo delitto di «impiego dei minori nell’accattonaggio» (art. 600 octies c.p., introdotto dall’art. 3, comma 19, d.d.l.) che sostituisce la più lieve contravvenzione oggi prevista dall’art. 671 c.p., una nuova aggravante ad effetto speciale per il delitto di truffa collegata alle situazioni di “minorata difesa” delle persone offese nei casi già previsti in

1 Cfr., da ultimo, il parere approvato il 1° luglio 2008, sul decreto legge n. 92/2008 recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”.

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generale dall’art. 61 n . 5 c.p.(art. 3, comma 28, d.d.l.), un regime circostanziale più appropriato per il delitto di sequestro di persona ex art. 605 c.p. quando avvenga in danno di minori (art. 3, comma 29, d.d.l.), ancora circostanze aggravanti più rigorose per il delitto di mutilazione di genitali femminili previsto dall’art. 583 bis c.p. (art. 3, comma 59, d.d.l.). Particolare rilievo e presumibile efficacia, tra tutte le disposizione del genere in esame, sembrano poter assumere le modifiche introdotte all’aggravante comune di cui all’art. 61 n. 5 c.p. (art. 1, comma 7, d.d.l.) che, tra le cause di minorata difesa, chiarisce che rientra in esse anche l’età della persona offesa (recependo un’indicazione già formatasi in via giurisprudenziale) e soprattutto l’inserimento di un nuovo numero 11 ter nello stesso art. 61 in base al quale è previsto l’aggravamento della pena qualora il fatto sia commesso in danno di minori all’interno o nelle immediate vicinanze di scuole ed istituti di istruzione e formazione, integrato da un’aggravante ad effetto speciale di contenuto sostanzialmente analogo specificamente prevista per i delitti di atti osceni e di violenza sessuale (art. 3, comma 20, d.d.l.). Sulla medesima linea di maggior tutela dei soggetti più deboli si inserisce la modifica all’art. 36, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (art. 3, comma 1, d.d.l.), che comporterà l’applicazione dell’aggravante ad effetto speciale di aver commesso il fatto contro persona disabile a numerosi altri reati oltre a quelli già oggi previsti dalla norma, così sostanzialmente quasi generalizzando tale misura di rigore in termini ormai talmente ampi da suggerire, sul piano tecnico-formale, che sarebbe forse opportuno studiare il suo più opportuno inserimento direttamente nel codice penale. Nella stessa prospettiva si collocano la modifica dell’aggravante speciale per i reati plurisoggettivi prevista dall’art. 112 c.p. [che, risolvendo dubbi interpretativi ricorrenti, sanziona più gravemente anche chi abbia partecipato alla commissione di reati con minori, e non soltanto chi al reato abbia indotto o si sia avvalso di un minore (art. 3, comma 15, d.d.l.)] e le nuove aggravanti al delitto di porto d’arma di cui all’art. 4 della legge 2 ottobre 1967, n. 895 (art. 3, comma 30, d.d.l.).

2.2. In una analoga direzione di maggior tutela dei soggetti deboli si colloca la scelta di introdurre una specifica fattispecie penale che punisce la condotta della sottrazione o del trattenimento del minore all’estero contro la volontà del soggetto investito dell’esercizio della potestà dei genitori o di tutela (art. 574 bis c.p.p. – art. 3, comma 29, lett. b, d.d.l.). Si tratta di una disposizione che consente – anche perché è prevista una pena che permette l’adozione di misure cautelari personali – di intervenire efficacemente in molte situazioni oggi prive di effettiva tutela sia sul piano sostanziale che su quello cautelare.

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2.3. Sempre sul piano del maggior rigore repressivo – ma in diversa prospettiva – si collocano due ulteriori eterogenee disposizioni: a1) la reintroduzione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 1, comma 8, d.d.l.), già abrogato dalla legge n. 205 del 1990 (in ordine al quale deve evidenziarsi l’ovvio incremento di attività giudiziaria che discenderà da una fattispecie di frequente realizzazione); a2) la previsione di un quarto comma all’art. 628 c.p. (art. 3, comma 27, d.d.l.) che, con riferimento ad alcune aggravanti a effetto speciale previste per il delitto di rapina, stabilisce un criterio di determinazione della pena in concorso con eventuali attenuanti più rigoroso rispetto alla regola ordinaria di cui all’art. 69 c.p. (adottando una soluzione non nuova ma criticabile sia sul piano del miglior ordine sistematico che invece richiederebbe una sostanziale uniformità di soluzioni per casi analoghi, sia sul piano della contrazione della discrezionalità del giudice che è invece necessaria per garantire la soluzione più idonea al caso concreto).

2.4. Le principali modifiche al codice di procedura penale apportate dal testo approvato dal Senato, anch’esse ispirate a criteri di maggior rigore cautelare, consistono essenzialmente nell’incremento delle ipotesi di arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza (art. 3, commi 24 e 25, d.d.l.). Altre modifiche al sistema processuale penale erano, infatti, previste nel testo iniziale dei disegno di legge, ma sono state successivamente soppresse anche perché in gran parte anticipate dal decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito in legge 23 aprile 2009, n. 38 recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori».

2.5. Questo insieme di disposizioni – e di molte altre (introdotte in particolare dall’art. 3) contenenti inasprimenti sanzionatori realizzati attraverso la previsione di nuove fattispecie di reato o di nuove aggravanti ovvero con l’aumento delle sanzioni previste o con un più rigido meccanismo di operatività delle aggravanti – comporterebbe, a prescindere dal giudizio di merito pur positivo che su alcune di esse è possibile esprimere, un ulteriore carico per il sistema penale (già particolarmente gravato e in evidente crisi di effettività) e per il circuito carcerario (ormai allo stremo, avendo superato le 62.000 presenze giornaliere). Ciò deve essere responsabilmente segnalato in sede di parere del Consiglio superiore della magistratura, senza che ciò significhi in alcun modo, volontà di sostituirsi ad altre istituzioni dello Stato in compiti che solo ad esse appartengono. Spetta ovviamente al Parlamento – e ad esso soltanto – operare le scelte normative ritenute più opportune (in particolare, per quanto qui rileva, nell’ambito della politica criminale), ma compete al Consiglio, in quanto organo

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rappresentativo della magistratura, segnalarne, in spirito di leale collaborazione, le conseguenze sul sistema giudiziario, anche al fine di consentire gli opportuni approfondimenti.

3. In materia di misure di prevenzione meritano di essere segnalate le modifiche proposte alla legge 31 maggio 1965, n. 575 (art. 2, comma 6, d.d.l.) che, opportunamente, precisano il ruolo del procuratore della Repubblica presso il tribunale distrettuale circa l’avvio delle indagini patrimoniali nei confronti delle persone che possono essere soggette alle misure di prevenzione e circa altri poteri d’impulso nelle indagini conseguenti, chiarendo taluni dubbi interpretativi sorti a seguito della non chiara dizione delle precedente modifica introdotta dal già citato decreto legge n. 92/2008.

4. Una parte rilevante ha, nel disegno di legge, il trattamento carcerario speciale previsto dal comma 2 dell’art. 41 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (art. 2, comma 25, d.d.l.), già più volte modificato ma tuttora soggetto a interpretazioni oscillanti e a difficoltà applicative e, dunque, meritevole di chiarificazione (peraltro solo parzialmente raggiunti con le modifiche proposte).

Positivo è il tentativo di risolvere i dubbi interpretativi in tema di proroga della misura già applicata con una descrizione più puntuale dei criteri di valutazione ai quali essa deve essere ancorata, oggi espressi con una indicazione generica che ci si propone di superare mediante una specificazione normativa degli indici rivelatori del permanente collegamento con le organizzazioni criminali (a partire dal profilo criminale del detenuto e dalla sua posizione all’interno dell’organizzazione, per continuare con la perdurante attività di quest’ultima, fino alla sopravvenienza di nuove incriminazioni non ancora valutate, per finire con gli esiti del trattamento penitenziario e il tenore di vita dei familiari). Significativo è l’inciso, frutto della esperienza ormai acquisita, per cui il solo decorso del tempo non è di per sé sufficiente per escludere la capacità di mantenere i contatti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa. Apprezzabile è anche la previsione di periodi di applicazione iniziale e di proroga della misura più congrui rispetto a quelli attuali, nonché la precisazione del contenuto delle restrizioni previste rispetto al trattamento carcerario ordinario, che hanno un’indubbia portata chiarificatrice rispetto alla situazione attuale. Va peraltro rilevato che l’eliminazione del sindacato giudiziario sulla «congruità del contenuto» del decreto ministeriale rispetto alle esigenze che lo ispirano (disposta con la modifica dell’art. 41 bis, comma 2 sexies) depotenzia in modo significativo la portata del controllo sulla compressione

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dei diritti del detenuto e riduce il significato innovativo della più analitica disciplina del contenuto dello stesso decreto dettata con il nuovo comma 2 quater.

Problematica è, invece, la parte della modifica relativa alla procedura di impugnazione dei decreti ministeriali applicativi della misura, in particolare per quanto attiene la concentrazione degli stessi presso il solo tribunale di sorveglianza di Roma. Tale soluzione – pur dettata da ragioni non prive di razionalità (in particolare l’esclusione della possibilità che sia l’amministrazione carceraria a determinare la competenza del tribunale con un semplice trasferimento del detenuto in via amministrativa) – trova significative controindicazioni, come in ultimo segnalato anche dai magistrati di sorveglianza del Tribunale di Roma in una nota trasmessa al Consiglio. Sotto il profilo organizzativo, infatti, il Tribunale di Roma si troverebbe gravato da un carico di lavoro particolarmente impegnativo e tale da non consentire i tempi di decisione necessari per tale tipo di situazioni (oltre che produttivo, per la natura dei provvedimenti in questione e la personalità criminale dei soggetti a cui sono applicati, di una particolare esposizione personale dei magistrati ad esso addetti). Ma anche sotto il profilo sostanziale l’accentramento delle decisioni in una unica sede priverebbe la decisione della diretta conoscenza delle situazioni esaminate, che costituisce il proprium della magistratura di sorveglianza. Né può considerarsi decisivo il rilievo concernente l’opportunità di assicurare maggiore omogeneità di orientamenti sul punto posto che, da un lato, l’esigenza di uniformità è assicurata – in questo come negli altri settori della giurisdizione – dall’intervento della Corte di cassazione e, dall’altro, il sindacato giudiziario diffuso si è rivelato in questi anni fonte di arricchimento di idee e di riflessioni in una materia la cui delicatezza è da tutti riconosciuta.

Qualche perplessità suscita anche la prevista possibilità che le funzioni di pubblico ministero dinanzi al tribunale di sorveglianza in occasione dei giudizi conseguenti al reclamo possano essere svolte anche dai magistrati della Direzione nazionale antimafia (che già devono esprimere un parere motivato) e da quelli dell’ufficio del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari ovvero presso il giudice competente per il giudizio già avviato, in alternativa al procuratore generale presso la Corte d’appello oggi competente in base a quanto previsto dal codice di procedura penale. Tale previsione infatti, a prescindere dalla incentivazione di meccanismi di accentramento e specializzazione del pubblico ministero che meriterebbero maggior approfondimento, omette l’indicazione dei criteri per la determinazione in concreto dell’ufficio inquirente con conseguenti incertezze e inevitabili conflitti (senza indicazione dell’organo deputato a risolverli).

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5. Una attenzione particolare il disegno di legge riserva alla disciplina in materia di immigrazione, alla quale sono apportate considerevoli modifiche.

5.1. La modifica più rilevante in materia è costituita dall’introduzione del nuovo reato di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato» (art. 10 bis t.u. immigrazione, introdotto con l’art. 1, comma 16, d.d.l.), affidato alla competenza del giudice di pace, che punisce con un’ammenda la condotta dello straniero che faccia ingresso ovvero si trattenga nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del testo unico sull’immigrazione o della legge n. 68/2007 (in tema di disciplina dei soggiorni di breve durata). La nuova fattispecie incriminatrice è corredata da previsioni accessorie (espressa previsione della espulsione come sanzione sostitutiva, effetto estintivo del reato dell’avvenuto allontanamento dello straniero, possibilità di procedere ad espulsione amministrativa anche in assenza di nulla osta della autorità giudiziaria procedente) che ne rendono evidente la finalità strumentale all’allontanamento dello straniero irregolare dal territorio dello Stato. La norma si presta a una pluralità di osservazioni critiche che hanno come punto di partenza la constatazione ovvia dell’eccezionale aggravio che la sua introduzione comporterebbe per l’attività giudiziaria in generale, in considerazione dell’imponenza quantitativa del fenomeno dell’immigrazione irregolare nel nostro Paese, e ruotano attorno al rapporto tra vantaggi e svantaggi che ne deriverebbero. In effetti il primo risultato perseguito da qualsiasi fattispecie incriminatrice è l’effetto deterrente che ne può derivare, e in tal senso una contravvenzione punita con pena pecuniaria non appare prevedibilmente efficace per chi è spinto a emigrare da condizioni disperate o comunque difficili (né il presunto disvalore di tale condotta è tale da ammettere, anche in astratto, maggiori rigori sanzionatori). Né la novità legislativa appare idonea a conseguire l’intento di evitare la circolazione nel nostro Paese di stranieri entrativi irregolarmente, poiché già la normativa vigente, in base al combinato disposto degli articoli 13 e 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, consente alle autorità amministrative competenti di disporne l’immediata espulsione (a cui ostano, in concreto, non già carenze normative ma difficoltà di carattere amministrativo e organizzativo). A fronte di ciò, l’amministrazione della giustizia verrebbe ad essere gravata da pesanti ripercussioni negative sull’attività non solo del giudice di pace (gravato di centinaia di migliaia di nuovi processi, tali da determinare la totale paralisi di molti uffici), ma anche degli uffici giudiziari ordinari impegnati nel processo in primo grado e nelle fasi di impugnazione successive (nei limiti della speciale procedura prevista per il giudizio dinanzi al giudice di pace), dovendo oltretutto far fronte anche ai nuovi e più impegnativi incombenti derivanti dall’applicazione di una

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nuova procedura accelerata contenuta anch’essa nel disegno di legge (art. 22) che prevede la presentazione immediata dell’imputato a giudizio dinanzi al giudice di pace in casi particolari (tra i quali il più ricorrente sarebbe certamente costituito dall’applicazione del nuovo reato). A proposito di tale ulteriore novità, riferita non solo ai processi per il reato di ingresso illegale nel territorio dello Stato ma a tutte le ipotesi di procedibilità d’ufficio dinanzi al giudice di pace qualora ricorra la flagranza ovvero vi sia prova evidente, va inoltre detto che la sua onerosità applicativa, tipica di tutte le procedure d’urgenza, non appare giustificata in relazione alla ridotta gravità dei reati di competenza del giudice onorario.

In termini più specifici va, inoltre, rilevato che:

b1) l’attribuzione al giudice di pace della competenza in ordine al nuovo reato, pur dettata evidenti ragioni pratiche, altera gli attuali criteri di ripartizione della competenza tra magistratura professionale e magistratura onoraria e snatura la fisionomia di quest’ultima;

b2) la nuova fattispecie così formulata presenta una irragionevole disparità di trattamento con quella (per molti aspetti simile) prevista dall’art. 14, comma 5 ter, t.u. immigrazione, che prevede la punibilità dello straniero inottemperante all’ordine di espulsione solo ove lo stesso si trattenga nel territorio dello Stato «senza giustificato motivo»: in particolare, nessun termine è concesso allo straniero divenuto irregolare per allontanarsi dal territorio dello Stato, con la conseguenza che il venir meno del titolo di soggiorno regolare comporterebbe automaticamente e immediatamente una ipotesi di «trattenimento illecito».

5.2. L’esperienza giudiziaria evidenzia poi – e impone di segnalare – una inevitabile incidenza negativa del nuovo reato in tema di accesso a servizi pubblici essenziali relativi a beni fondamentali tutelati dalla Costituzione (si pensi al diritto alla salute) da parte degli immigrati non dotati (o non più dotati) di valido titolo di soggiorno. Ai sensi dell’art. 331 c.p.p., infatti, tutti i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di denuncia in relazione alla cognizione funzionale di un reato procedibile d’ufficio. Il rischio concreto – in assenza dell’introduzione di una deroga all’obbligo quantomeno nell’ambito di servizi che tutelano beni primari – è che si possano creare circuiti illegali alternativi che offrano prestazioni non più ottenibili dalle strutture pubbliche.

5.3. Parallelamente va rilevato che l’art. 6, comma 2, t.u. immigrazione, come modificato dall’art. 45, lett. f (ora art. 1, comma 20, lett. f, d.d.l.), richiede, ai fini della dichiarazione di nascita, la esibizione all’ufficio dello stato civile del permesso di soggiorno di chi la opera. Ciò, come segnalato in una nota 30 aprile 2009 della Associazione magistrati per i minorenni

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e la famiglia, si pone «in contrasto con il diritto della persona minore di età alla propria identità personale e alla cittadinanza da riconoscersi immediatamente al momento della sua nascita (art. 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge del 27 maggio 1991 n. 176)», «determinando una iniqua condizione del figlio di genitori stranieri non regolari nel nostro territorio», con la conseguenza che lo stesso non solo «verrebbe privato della propria identità ma potrebbe essere più facilmente esposto ad azioni volte a falsi riconoscimenti da parte di terzi, per fini illeciti e in violazione della legge sull’adozione».

5.4. Positivo appare invece, in linea di principio, il tentativo di meglio precisare e regolamentare, anche con inasprimenti sanzionatori, le condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12 t.u. immigrazione (art. 1, comma 26, d.d.l.). Al riguardo si osserva che, con riferimento alle ipotesi aggravate, è previsto lo stesso più rigoroso criterio di valutazione delle esigenze cautelari per l’adozione della misura della custodia in carcere già contemplato per numerose altre fattispecie dall’art. 275 c.p.p. (che forse sarebbe la sede normativa più opportuna sul piano tecnico-formale per l’inserimento anche di tale ipotesi).

5.5. L’articolo 1, comma 22, lett. h bis, del disegno di legge, riproducendo sostanzialmente la disposizione già contenuta nell’art. 5 del decreto legge n. 11/2009 e abbandonata in sede di conversione, estende da 2 a 6 mesi il termine massimo di durata del trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione (Cie) degli stranieri irregolari, in caso di mancata cooperazione al rimpatrio, ovvero di ritardo nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi. Sul punto il Consiglio ha già espresso il proprio parere pronunciandosi sul decreto legge citato. Nel richiamare detto parere si osserva che, in accoglimento di alcuni rilievi ivi formulati, nel nuovo testo si è prevista, per la reiterazione del trattenimento, la necessità che sia fornita la prova dell’avvenuto esperimento, da parte dello Stato, di ogni ragionevole sforzo per ottenere dal Paese terzo la documentazione atta a consentire l’esecuzione dell’espulsione. Cionondimeno resta fermo che:

c1) la norma in questione «suscita perplessità laddove pone in alternativa le condizioni della “mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del Paese terzo interessato” o dei “ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dei Paesi terzi” che, invece, nella direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 (recante “norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui

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soggiorno è irregolare”), costituiscono presupposti diversi dell’intervento: la resistenza all’identificazione legittima il trattenimento, i ritardi nell’ottenimento della documentazione legittimano solo il prolungamento della permanenza», con la conseguenza «che potrebbe verificarsi una vera e propria detenzione amministrativa basata su una semplice difficoltà nell’accertamento dell’identità legale del soggetto o nell’acquisizione della documentazione di corredo malgrado la sua piena disponibilità alla preparazione del rimpatrio»;

c2) la attribuzione della competenza relativa alla proroga del trattenimento attribuita al giudice di pace (come già osservato nel parere sul disegno di legge di conversione del decreto legge 29 dicembre 2007 n. 249 recante “Misure urgenti in materia di espulsioni e di allontanamenti per terrorismo e motivi imperativi di pubblica sicurezza”: delibera del 20 febbraio 2008) è anomala nel nostro sistema giacché «vertendosi in materia di privazione della libertà personale, meglio sarebbe investire il tribunale ordinario in composizione monocratica anche se ciò comporterebbe in termini organizzativi un impegno particolarmente gravoso» e ciò in considerazione del fatto «che, mentre “le garanzie costituzionali di indipendenza e di autonomia trovano la loro più completa attuazione nello status ordinamentale del magistrato professionale, caratterizzato dalla non temporaneità e dalla esclusività dell’appartenenza dell’ordine giudiziario, per il giudice di pace, il carattere “onorario” ne caratterizza il profilo ordinamentale e, pur senza accreditarne la figura di “giudice minore” ne evidenzia tuttavia gli aspetti differenziali rispetto alla disciplina ordinamentale del giudice professionale»;

c3) «la possibile dilatazione temporale del trattenimento presso i Cie» renderebbe opportuno «instaurare un controllo sulle modalità e condizioni della detenzione amministrativa del cittadino straniero».

6. L’articolo 3, commi 40-44, d.d.l. ha per oggetto la «collaborazione con i sindaci» di «associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale». Anche su questa disposizione – seppur diversamente formulata – il Consiglio superiore, con riferimento al decreto legge n. 11/2009 (nel quale una norma analoga era originariamente prevista), ha già espresso un parere che qui integralmente si richiama.».

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